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Intervista a Silvia Rosi

Vincitrice ai Jerwood / Photoworks Awards come talento emergente, l’artista italo-togolese Silvia Rosi esplora la storia delle proprie origini attraverso la rappresentazione immaginaria dell’album di famiglia. Encounter, una serie di autoritratti performativi ispirati alla fotografia di studio dell’Africa occidentale, racconta l’esperienza della diaspora di una famiglia e affronta con ottimismo temi quali migrazione, identità, memoria e resilienza. Una storia personale, oggi più universale che mai.

Encounter: che significato ha esattamente il titolo di questa serie?

Il lavoro che ho realizzato per il Jerwood/Photoworks Awards rappresenta un ‘incontro’.

Un incontro con i vari membri della mia famiglia le cui storie mi sono state narrate da mia madre (durante lunghe conversazione al telefono tra l’Italia e l’Inghilterra), ma anche incontri con sconosciuti che mi hanno ispirata nell’indagare le mie origini.

Come è nata l’idea del progetto?

Il progetto nasce dall’esperienza legata al mercato di Assigame, a Lomé in Togo, un luogo che ha molta importanza per me e per la mia famiglia.

Il mercato è il luogo in cui mia nonna lavorava, e con lei mia madre. Infatti è al mercato di Assigame che mia madre ha guadagnato i soldi che le servivano per andare in Italia.

Dopo aver passato un mese osservando le donne del mercato che trasportavano la merce sulla propria testa, ho trovato nell’album di famiglia una foto di mia madre che la ritraeva mentre era seduta alla sua bancarella. La foto mi ha colpita perché era una della rare immagini in cui mia madre non era ritratta all’interno dello studio del fotografo (come tipico degli album di famiglia dell’Africa occidentale), ma in uno spazio aperto quale è invece il mercato.

Quando ho visto quella fotografia ho deciso che avrei realizzato un progetto che parlasse di questa realtà ma che fosse soprattutto connesso al vissuto della mia famiglia e alla storia di migrazione dei miei genitori dal Togo all’Italia.

Il tuo lavoro si ispira fortemente alla fotografia in studio dell’Africa occidentale, dalla scelta dell’uso del bianco e nero (anche se non in maniera completamente esclusiva), le pose, il set up della scena. In questo caso però si tratta di autoritratti. Com’è stato interpretare i diversi membri della tua famiglia?

La connessione del mio lavoro alla fotografia di studio dell’Africa occidentale è dovuta all’incontro con l’estetica delle fotografie presenti nel mio stesso album di famiglia in cui, vestiti nei loro abiti migliori apparivano i miei parenti. Queste fotografie mi hanno colpita sin da giovane, ne ho sempre studiato le pose, gli abiti e i motivi.

Il fatto di osservare queste foto in continuazione mi ha reso possibile immedesimarmi nei miei genitori e raccontarne le storie.

Cos’è cambiato per te dopo quest’immersione all’interno dello spirito dell’album di famiglia?

Sento di aver compreso meglio il viaggio di migrazione dei miei genitori e il modo in cui la loro relazione è cambiata di conseguenza. Ho compreso le ragioni profonde dietro il desiderio di partire e la mia posizione di cittadina italiana consapevole delle sue origini.

Che ruolo ha la fotografia nella tua pratica artistica?

La fotografia ha un ruolo centrale, dall’uso delle foto di archivio alla produzione delle immagini stesse. In questo progetto ho integrato video e testo, che non sono accessori alla fotografia ma anzi lavorano in continua relazione aggiungendo nuovi significati al lavoro.

Sei nata in Italia, a Scandiano, un paesino vicino a Reggio Emilia, da genitori togolesi. Oggi vivi a Londra. So che l’esperienza italiana  non è stata facilissima. Che rapporto hai con entrambe le tue terre di origine?

Ho un forte legame con l’Italia, dovuto principalmente alla lingua. Ho sempre amato leggere e ascoltare racconti. Quando ero piccola mia madre mi ha comprato un libro, non mi ricordo bene il titolo, qualcosa del genere “Miti dell’Africa”, in cui il mito del fuco veniva narrato insieme al mito della creazione. E poi c’erano le storie di mia madre sulla sua terra natale. Erano rare, (mia madre non si è mai raccontata troppo) ma ancora le ricordo e tutt’ora influenzano il modo in cui scrivo il testo che accompagna le mie immagini.

L’Italia è il posto in cui sono nata ma il Togo rappresenta il luogo di origine e di ritorno in cui scoprire me stessa e la mia famiglia.

Secondo te, l’arte può essere veramente in grado di porre attenzione e creare il terreno fertile per discutere su tematiche legate all’identità e la diversità?

L’arte è espressione dell’artista e penso che raccontando la mia storia personale (che in realtà tocca temi universali) posso forse contribuire a creare una conversazione a livello collettivo.

Quali sono i tuoi progetti futuri? Pensi tornerai mai in Italia?

Il mio lavoro affronta temi molto intimi e per questo è in continua evoluzione. Non lo considero un progetto finito ma l’inizio di un viaggio alla scoperta di sé e una pratica in continua creazione.

Di sicuro mi riporterà in Italia a un certo punto.



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