Mies van der Rohe: il capolavoro di Villa Tugendhat
Compie 90 anni la villa capolavoro di Mies van der Rohe a Brno, nella odierna Repubblica Ceca. Strettamente imparentata con il celebre padiglione che l’architetto tedesco aveva presentato nel 1929 all’Esposizione Universale di Barcellona, di fatto ne realizza le idee guida, cioè la ricerca di una totale fluidità degli spazi e l’impiego di nuove tecnologie costruttive (in particolare la struttura portante in metallo). Se l’attuale padiglione che si può visitare a Barcellona è una accurata ricostruzione dell’originale distrutto alla fine dell’Expo, Villa Tugendhat, sopravvissuta alla cattiveria della Storia e degli uomini che l’hanno scempiata e depredata, è tornata quella del 1930: un esempio unico di architettura totale, firmata Mies fino nel più piccolo dettaglio. Casa Vogue ne raccontò le vicende nell’aprile 2014, due anni dopo la conclusione dei lavori che ne hanno segnato la definitiva rinascita. Sembra banale dirlo, ma oggi la villa è temporaneamente chiusa alle visite. Rimane la speranza che il ricco programma di mostre celebrative stabilito per i prossimi mesi sia solo rimandato. (Paolo Lavezzari)
«Ma chi può vivere in quella casa?». Nel 1928, Villa Tugendhat non era ancora occupata, ma già era oggetto di furiose polemiche, cristallizzate in un saggio, pubblicato su “Die Form”, che ne metteva in dubbio, appunto, l’abitabilità. L’edificio di Luswig Mies van der Rohe fu accolto da subito con opinioni radicalmente opposte: chi lo definiva progetto emblematico della modernità, chi uno sterile esercizio cerebrale, formalmente magnifico quanto inabitabile. Nasce così Haus Tugendhat, tra polemiche e meraviglia, e un destino tragico che si intreccia con la storia del Novecento.
Alla metà degli anni Venti, Grete e Fritz Tugendhat vogliono far costruire la loro nuova casa a Brno, in Moravia (Cecoslovacchia). Hanno ampi mezzi: lui è un industriale tessile, lei è figlia del magnate Alfred Löw-Beer, il quale, per compensarla di non averle dato una partecipazione nell’azienda di famiglia, le offre un’ingente somma di danaro come finanziamento per l’acquisto di un terreno e la costruzione della villa. La coppia, aperta al vento di novità che soffia sull’Europa, contatta Mies, figura di punta del Modernismo nei circoli berlinesi. «In effetti, i miei genitori gli chiesero semplicemente di progettare una casa con cinque stanze, dandogli carta bianca», racconta Daniela Hammer-Tugendhat. Questa libertà permette a van der Rohe di pensare una costruzione in cui esprimere tutte le proprie intuizioni, dando forma a un’abitazione ancora oggi considerata la massima espressione del suo genio.
Evidente il legame tra il Padiglione di Barcellona (1929) e Villa Tugendhat (1930), non solo nei materiali impiegati e nella progettazione di alcuni pezzi dell’arredo – le poltrone Barcelona, Brno, Tugendhat –, ma anche e soprattutto nella definizione del concetto di spazio. La stanza principale è un immenso soggiorno, pensato in una sorta di movimento armonioso, scandito – mai interrotto – da un imponente setto di onice e da un elegante semicilindro di ebano, che abbraccia la zona pranzo, occupata da un grande tavolo rotondo. La lunga parete che affaccia sul parco sottostante è una lastra di vetro controllata elettricamente per calare e scomparire nel basamento, a sottolineare il continuum poetico tra dentro e fuori. Persino la disposizione dei tavolini e delle poltrone è studiata per lasciare che lo sguardo circoli indisturbato. In questa stanza, la luce naturale gioca a trasformare le tonalità calde dell’onice e a far brillare i pilastri di acciaio cromato, mentre oggetti e persone si sdoppiano e si riflettono sulla grande fascia di vetro.
Villa Tugendhat è probabilmente uno degli ultimi esempi di “arte architettonica totale”, nel senso che Mies ha progettato tutto: dalla struttura ai tappeti, alle tende. Senza fare alcuna concessione: «Qualcuno fece notare a mio padre che non era una buona idea avere delle porte alte quanto il soffitto, perché rischiavano di deformarsi», ricorda Daniela. «Lui ne parlò a van der Rohe, il quale, gentilmente ma fermamente, rispose con un ultimatum: o mio padre accettava quelle dimensioni o lui non costruiva la casa». Nulla è lasciato al caso in questa abitazione di tre piani costruita su un terreno in pendenza. Dal lato strada, è visibile solo il livello superiore, adibito a entrata e zona notte. A destra del vestibolo, una scala in travertino porta al piano sottostante, la zona giorno. Un’altra scala, a chiocciola, dà accesso all’ultimo livello seminterrato, trasformato in una sorta di favolosa sala macchine, con stanza di controllo per l’umidificazione e l’aerazione, lavanderia con centrifuga industriale e persino la “Motten-kammer”, il locale refrigerato per custodire le pellicce.
La sobrietà degli ambienti, in particolare delle camere da letto e dei bagni, è controbilanciata dall’uso di materiali nobili: legno pregiato, marmo, onice, pelli e tessuti lavorati a mano e fatti su misura. Quella casa così nuova e grandiosa scatena curiosità, ma anche riprovazione: «Per la gente del luogo, quella parete di vetro aveva un valore quasi immorale», commenta uno storico dell’architettura nel documentario “Haus Tugendhat”, diretto da Dieter Reifarth e prodotto da Pandora Film.
I Tugendhat vivono felicemente in quella casa per soli otto anni: sono ebrei e, subito dopo l’Anschluss, si rifugiano in Svizzera, prima che l’accordo di Monaco dia la possibilità ai nazisti di invadere la Moldavia. Occupata prima dalla Gestapo, poi dall’esercito russo, la casa è scempiata dai nuovi inquilini: mobili rubati, pannelli di legno bruciati, il livello inferiore trasformato in stalla. Nel ’67, Grete contatta lo studio americano di Mies e torna a Brno nella speranza di potere, se non recuperare la proprietà della villa, almeno salvarla restaurandola. Nel ’68, però, i carri armati russi entrano a Praga e nel ’69 Mies muore.
La casa diventa prima scuola di danza, poi centro di rieducazione fisica. Gli eredi Tugendhat cercano invano di attirare l’attenzione sulle condizioni disastrose di questo gioiello di architettura, finché, a metà degli anni Ottanta, è lanciato un progetto di salvataggio particolarmente infelice. Tutto è rifatto in modo sbagliato, quasi amatoriale. Bisogna aspettare il 2001 e gli sforzi coordinati di tutti gli eredi Tugendhat perché la casa – o quel che resta – venga finalmente iscritta nella lista del Patrimonio dell’Umanità; e un’altra decina d’anni perché siano raccolti i 6 milioni di euro necessari a un vero restauro. Oggi l’edificio, recuperato fin nei minimi dettagli, è tornato a essere come Mies l’aveva concepito. Non sarà mai più abitato, ma resta aperto al pubblico per visite guidate. Per una logica amministrativa tanto ottusa quanto ingiusta, la casa non può essere restituita ai legittimi proprietari. Nella memoria collettiva, resterà per sempre un monumento al genio architettonico e alla tragicità della Storia.
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