Comprare è un atto carico di responsabilità
L’onda lunga del tragico omicidio di George Floyd a Minneapolis ha fatto crollare una facciata che reggeva da molto tempo, quella dell’uguaglianza razziale. Mentre le proteste contro la discriminazione crescevano, dalla Siria a Los Angeles, il dibattito si è concentrato sulle responsabilità di ogni individuo, marchio e società nella lotta contro la supremazia dei bianchi e il sessismo. Una scelta di campo destinata ad avere impatti a lungo termine. Per i millennial e la Gen Z, che complessivamente si stima valgano tremila miliardi di dollari (e si muovono in base alla loro etica e ai loro valori), l’atto intrinsecamente politico dello shopping non dovrebbe essere sottovalutato. In parole povere: che si stia prendendo un caffè o acquistando un paio di sneaker, tutto ciò che si consuma plasma il mondo intero, perché il rituale del “comprare” è un atto carico di responsabilità sociali e ambientali, sia per il consumatore che, soprattutto, per il brand.
«Ci sono questioni sociali ed etiche coinvolte nelle decisioni di acquisto», afferma Michele Micheletti, professore di scienze politiche e autore di Political Virtue and Shopping (Palgrave Macmillan). «Il più delle volte, il significato politico di un prodotto è latente o invisibile, ma diventa visibile quando i cittadini gli danno un significato pubblico e iniziano a vedere come il prodotto stesso si confronta con la loro filosofia di vita e con le loro idee politiche. Quando le persone agiscono sulla base di queste considerazioni, si comportano da consumatori politici».
Le grandi aziende – in particolare quelle che, messe sotto pressione, stanno cercando di impegnarsi in questioni di giustizia sociale – hanno molto da imparare dai piccoli marchi, parecchi dei quali hanno lavorato instancabilmente e per diversi anni al loro progetto. Si pensi all’artista e designer Tremaine Emory, che è cresciuto nel Queens, a New York, e ora vive a Los Angeles: le cause di giustizia sociale sono intrecciate nel tessuto stesso del suo brand, Denim Tears. Avendo lavorato con nomi importanti, da Frank Ocean e Kanye West a Theaster Gates, Emory utilizza i suoi 121.000 follower su Instagram come base per favorire la consapevolezza off-line. E dopo aver regalato dischi 33 giri dei più grandi discorsi di Malcolm X, Emory ha lanciato la sua prima collezione di abiti nel 400° anniversario del giorno in cui iniziò la schiavitù in America. Per la sua prima collaborazione con un big brand – Levi’s, nel gennaio di quest’anno – Emory ha creato una collezione di jeans stampati con motivi a forma di ghirlanda di fiori di cotone: un inno e un omaggio alla lunga storia della sua famiglia nella raccolta della pianta.
«Quando è uscito il film su James Baldwin I Am Not Your Negro, ho regalato ai bambini i biglietti per una proiezione al Lincoln Center e ho chiesto loro di scrivere temi sul film», dice Emory, che spiega di impegnarsi per i giovani perché, ovviamente, vede la loro presa di coscienza come un investimento per il futuro: «Devo farlo, o non avrei speranza!».
(Continua)
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Nelle foto: “8 minutes & 46 seconds”, un progetto diretto e fotografato da Isaac West (@isaacwest). Modella: Nyakim Gatwech (@queennyakimofficial); modelli: Festino Jah (@festino_j), Timothy (@pablo.papilli), Juor Dobuol (@therealjjdobuol), Eoj Hom-Rok, Goaner Deng (@gdeng800), Avain Glory (@avainglory).
Leggete l'articolo integrale sul numero di luglio/agosto di Vogue Italia, in edicola dal 23 luglio
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