Casa Vogue. Carimate di Vico Magistretti
Le celebrazioni per il centenario di Vico Magistretti (1920-2006) stanno, se mai ce ne fosse bisogno, riproponendo una delle figure più interessanti del progetto architettonico del secolo trascorso. A chi poco ne sa e che al più sa citare la luce Eclisse di Artemide o il divano Maralunga di Cassina, si consiglia di leggere il ritratto che Francesca Molteni ne ha tratteggiato su Casa Vogue a giugno raccogliendo una serie di affettuosi contributi e puntuali ricordi. Architetto per vocazione, formazione ed esiti e, solo in un secondo momento, designer, Magistretti ha firmato un’ampia serie di edifici tipologicamente diversi, ma nei quali si riconosce sempre, ben nascosta, la sua cifra progettuale. Sono palazzi, chiese, appartamenti, depositi, case di vacanza... Una visita al sito della Fondazione Vico Magistretti e al suo esaustivo archivio digitale (vicomagistretti.it) consente sia una panoramica sulle idee, le forme e le soluzioni limpide, leggere dell’architetto, sia un costante aggiornamento sulle celebrazioni. L’articolo che vi riproponiamo e che in italiano titolerebbe “campagna e mazze da golf” ripercorre le vicende di una costruzione che tuttora, anzi ancora di più dato che nel frattempo gli alberi circostanti sono cresciuti, è un riuscito esempio di come, se ben concepito, il gesto umano statico – l’architettura – convive in piena armonia con la natura sempre in divenire. E poi Magistretti era provetto golfista, forse anche questo avrà inciso sulla riuscita del progetto? Nell’articolo viene citata anche una celebre seduta, appunto la Carimate, che l’architetto disegnò apposta per il ristorante. Prodotta a lungo da Cassina, oggi è fuori produzione. Ma la speranza che qualche azienda la riediti c’è sempre. Sarebbe un peccato non rivederla nel suo sgargiante rosso lacca.
(Paolo Lavezzari)
Country & Clubs
photos by Andrea Passuello
Il progetto di Carimate consacra Vico Magistretti quale maestro del nuovo design italiano del Novecento
A quasi dieci anni dalla scomparsa, Vico Magistretti (1920-2006) resta un riferimento tra i più autorevoli nella sfera del progetto moderno del secondo Novecento. La sua eredità estetica e formale, la sua lezione non sono andate a dissiparsi. Anzi, il lascito del progettista milanese nell’architettura e nel design si è in questo tempo irrobustito, grazie anche all’attività della Fondazione a lui dedicata, enucleandosi con sempre maggiore evidenza quale mirabile sintesi dell’esperienza razionalista. Pochi come lui hanno saputo infatti padroneggiare, dalla scala minore a quella maggiore, eleganza compositiva e sofisticata funzionalità: ovunque lo si vada a ripescare, tra le pagine dei libri e delle riviste con le immagini e i commenti ai suoi lavori, o direttamente a contatto con le sue architetture, i suoi mobili, le sue lampade, il tocco di Magistretti emerge impeccabile, con un’aristocratica limpidezza superiore alle insidie delle mode e al variare dei gusti. Non c’è da stupirsi.
Egli, per storia familiare, formazione e cultura, riassume i caratteri fondanti del tragitto progettuale milanese del XX secolo, tanto radicato nel mito del Movimento Moderno, quanto in grado di interpretare da sé i dogmi di quella religione, spesso anzi addolcendoli con guizzi inattesi e invenzioni personali. Quale ulteriore e vincente carta da giocare, Magistretti disponeva inoltre di un’innata, affascinante “britishness” – «Se appena hai dentro di te della volgarità, ti viene fuori, e non puoi nasconderla», affermava, immune da tale rischio – che era una forma di autocontrollo e insieme di comportamento e di metodo, la traccia lungo cui si dipanò nel tempo l’intera sua carriera. Con queste premesse, la visita a Carimate in Brianza – una trentina di chilometri da Milano – dove Magistretti realizza con Guido Veneziani, nel 1961, uno dei suoi lavori più noti, la Club House del locale golf, assume dal principio i tratti, ben noti a chi lo pratica, del pellegrinaggio architettonico. Questo accade quando l’opera è ancora in grado di testimoniare una sorta di originaria energia creatrice, lo spirito di un’epoca.
Come si va insomma a vedere Le Corbusier a Marsiglia o Mies van der Rohe a Brno, ecco che, appunto, andare a Carimate si carica di un significato più ricco e complesso del semplice sopralluogo a una pregevole costruzione. Qui s’incrociano storie e traiettorie diverse, tanto che questo edificio, così come venne disegnato e arredato, per il green che funse da volano dello sviluppo edilizio dell’area (attraendo tra l’altro proprio il milieu del design milanese dell’epoca), è davvero un caso paradigmatico. Per inquadrare l’intera vicenda servirebbe esaminare una molteplicità di dettagli, sia di carattere progettuale sia sociologici e di costume. Ne bastino alcuni. Nel percorso di Magistretti, intanto, Carimate è l’opera che lo consacra definitivamente come architetto e lo lancia quale protagonista del nuovo progetto italiano. Già, perché questo lavoro è in effetti per lui un doppio giro di boa, con l’architettura da un lato e, dall’altro, lei, “la” Carimate, la seggiola impagliata con i braccioli, dipinta in uno squillante rosso all’anilina, disegnata per il ristorante interno e quasi subito (nel 1963) messa in produzione da Cassina.
Una sedia semplice semplice, in apparenza priva di eccessive pretese stilistiche – «Ispirata alle sedie da chiesa, e tradotta modernamente senza tradire l’aggancio alla tradizione», ricorda Italo Lupi – ma che sale proprio per questo alla velocità della luce nell’empireo delle icone italiane del design, al pari e con motivazioni simili alla Superleggera di Gio Ponti. Si sfogli una qualsiasi rivista d’arredamento intorno alla metà degli anni Sessanta: la Carimate è dappertutto, oltre a essere l’avvio di una duratura e proficua collaborazione tra Magistretti e Cassina. Altro punto chiave riguarda l’idea di utilizzare un campo da golf per promuovere un ampio piano di interventi residenziali di pregio in questa area briantea. È un programma che viene sostenuto dalla Società Generale Immobiliare, responsabile di un piano coevo e similare a Roma (l’Olgiata) e, poco prima, della costruzione della torre Velasca dei BBPR a Milano, e di cui la Club House costituisce il primo tassello edificatorio. Sono gli anni del boom economico e, all’interno di certi ambiti alto e medio borghesi, si accentua il desiderio di modalità rappresentative del proprio status capaci di celebrare senza ostentazione, sulla falsariga scandinava e anglosassone, le nuove fortune imprenditoriali e dinastiche.
All’interno di questa visione si sviluppano alcune prove architettoniche e urbanistiche extraurbane che tentano di fornire, con il contributo di validi progettisti italiani, un’alternativa alla disordinata e violenta mutazione del paesaggio naturale, conseguente al diffondersi della vacanza e del tempo libero di massa. Arenzano in Liguria, Punta Ala in Toscana, Corte di Cadore nei pressi di Cortina, sono tra gli esempi di nuove aree turistiche in cui il talento dei singoli autori (Gardella, Zanuso, Albini, Caccia Dominioni, Gellner e altri), oppure una committenza illuminata, come il villaggio dell’Eni a Cortina, consentono di raggiungere una qualità tanto alta da non essere però, per varie ragioni, replicabile su larga scala. A Carimate è l’idea stessa del campo da golf, con i suoi prati rasati, allungati su un colle alle spalle di un antico castello, a contrapporsi visivamente all’incipiente caos edilizio di quegli anni e a proporsi in tal modo come idilliaca oasi di pace. Il messaggio funziona e arrivano in molti, chi solo per giocare – una storia nella storia, come potrebbe raccontare oggi il direttore Giuseppe Nava –, chi anche per abitare. Il richiamo si diffonde in particolare nel giro del design che conta e produce. I nomi incrociabili a queste latitudini sono diversi, da Cesare Cassina, il quale interpella Carlo Scarpa prima di rivolgersi allo stesso Magistretti per la sua villa costruita lì nel 1965, a Piero Ambrogio Busnelli (che con Cassina fonda nel 1966 la C&B), Carlo Giorgetti, Rodrigo Rodriquez.
Silvia Latis, storica firma al fianco di Lupi di “Abitare”, ricorda il «civile spirito anglosassone» di quella variegata comunità brianzolomilanese, a lei nota in seguito alla decisione dei genitori di raggiungere Carimate sul principio dei Sessanta. Vari interventi si sono aggiunti nel tempo al campionario architettonico dell’area – ville di Afra e Tobia Scarpa, di Luigi Vietti e molte altre –, ma furono Magistretti e Veneziani a trovare la chiave giusta per entrare nella cornice naturale del colle di Carimate senza snaturarne, anzi potenziandone le caratteristiche originarie. La Club House, dotata di un’adiacente piscina, viene infatti disegnata a partire da una serie di continui, delicati aggiustamenti visuali, metodologia compositiva nella quale Magistretti era maestro, in cui tutto parte dalla ricerca del massimo accordo con il verde circostante. È, insomma, il campo da golf che spiega all’edificio come comportarsi e questo si adegua, sviluppandosi armonioso con una serie di progressivi e calibrati innalzamenti che lo fanno crescere e salire dal livello di ingresso fino alla sommità. Nell’orchestrazione degli spazi interni, tenuti in riga fino al loro logico dilatarsi ai margini delle facciate esterne, si coglie la ricchezza di una misura progettuale che scavalca una certa maniera razionalista per riscoprire più antichi e meditati preziosismi, quelli di Loos o di Hoffmann nel primo Novecento viennese. Dettagli bellissimi ovunque, dagli infissi colorati in due toni di rosso a certi tagli geometrici o curvi dei muri interni, fino alla sommità bocciardata dei parapetti e agli arredi fissi e mobili. «Un’opera che ha retto magnificamente i suoi primi cinquanta anni di vita», dice convinto Carlo Giorgetti, «un luogo in cui lo spirito di Vico è davvero ancora molto presente».
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