Antologia di Casa Vogue. Il concorso di Gio Ponti per novelli sposi
Quando si parla di casa, di progetto italiano è inevitabile che prima o poi si parli di Gio Ponti. All’opera e alla figura dell’architetto milanese Casa Vogue ha sempre dedicato un’attenzione speciale parlandone spesso sulle sue pagine. Di Ponti abbiamo sempre amato l’energia, la capacità di coinvolgere, l’apertura verso tutto ciò che è nuovo, il sostegno alle nuove generazioni, il guardare con entusiasmo al futuro, l’ininterrotto fluire di idee che diventa dialogo, racconto, spiegazione. Sono tutte queste peculiarità ad apparire evidenti nell’articolo che è qui riproposto e che apparve su Casa Vogue nell’ottobre 2006, scritto da Massimo Martignoni che di Ponti è uno dei veri esperti. Non c’è molto altro da aggiungere: tutta da cogliere è l’atmosfera ricca di idee e nuovi fervori che percorreva i difficili anni del dopoguerra – idee che Ponti analizza con cura. E poi, in fondo, il ritrovare di tante problematiche che ieri come oggi le giovani coppie si trovano ad affrontare cercando un punto di equilibrio tra spazi piccoli e grandi desideri. (Paolo Lavezzari)
C’è la regia di Gio Ponti nella storia del concorso d’interni illustrato da questa serie di schizzi e bozzetti. Lo scenario operativo è quello della casa milanese di via Randaccio (1923), prima architettura progettata e costruita da Ponti e opera-manifesto della sua stagione neoclassica. Dalle pagine di “Domus” (di cui era tornato direttore nel 1948 dopo la pausa di sette anni passati a “Stile”), Ponti invita architetti, arredatori e studenti di architettura a ripensare alcuni ambienti di servizio collocati nel sottotetto, ovvero la parte posta sopra il cornicione e indicata in facciata dal famoso coronamento con obelischi. Sono passati oltre venticinque anni dalla realizzazione, e Ponti lascia ad altri il compito di organizzare questa parte dell’edificio destinata ad appartamento della figlia Lisa e del marito (“Che cosa vogliono questi due?” è il titolo del concorso). Non è un episodico atto di generosità nei confronti dei colleghi, ma è un comportamento usuale di Ponti, sempre attento ad allargare e promuovere le occasioni lavorative dalle pagine delle sue riviste. Al tempo stesso, è un modo per sondare nuove soluzioni d’interni attraverso le voci dei progettisti-lettori.
Si è infatti nel 1949, anno che registra in Italia l’apparizione del termine “industrial design”, fascinosa sirena dal suono inglese che attirerà frotte di progettisti e trasformerà completamente la fisionomia del disegno d’interno italiano, dalla configurazione degli ambienti alla natura stessa dei componenti d’arredo. Fase esaltante, ancorché contraddittoria e fluida, che il concorso illustra con ricchezza di spunti e invenzioni. Gli autori dei sei progetti pubblicati non raggiungono certo la fama della commissione giudicatrice – composta, oltre che da Ponti, da tre fuoriclasse come Mario Asnago, Melchiorre Bega e Luigi Figini – ma rappresentano piuttosto uno spaccato della realtà nazionale, in base alla provenienza geografica dei diversi concorrenti.
Tra loro si distinguono per la qualità dei lavori Paolo A. Chessa (Milano) e Giorgio Host Ivessich (Trieste), presenti poi in varie occasioni sulla rivista di Ponti (di Chessa si ricorda il ruolo di “impaginatore” nella “Domus” diretta da Ernesto N. Rogers dal 1946 al 1947). Meno agevole ricostruire la fisionomia degli altri partecipanti, Mario Oreglia e Marcello Arione (Torino), Dante Iannicelli (Roma), Hubert Dioli e Danilo Farinella (Ferrara), Aiardo Agliardi e Angelo Giavarini (Bergamo), professionisti di un’Italia cui spetta in quel periodo il compito di modernizzare, nel bene e nel male, il volto del paese. Dopo gli anni di magra successivi al conflitto, ci si avvia infatti alla più massiccia espansione edilizia della storia italiana, processo che coinvolge legioni di architetti, geometri, arredatori, decoratori, pittori, plasticatori.
«Che cosa vogliono questi due? I nuovi abitanti dell’appartamento vogliono trovarvi una camera da letto, una cucinetta piccolissima, un soggiorno. A essi preme che la soluzione sia bella, non complicata, rapida da eseguire, non comporti eccessiva spesa, e il risultato sia comodo e allegro». Indicazioni che rinviano a una coppia moderna ed emancipata, non fosse altro per quel riferimento alla «cucinetta piccolissima», che va contro corrente rispetto alla richiesta di cucine grandi e super attrezzate che da lì a poco, negli anni Cinquanta, diverranno un must irrinunciabile per la famiglia italiana (nonché luogo di sperimentazione della modernità più avanzata).
Modularità, leggerezza, effetti di trasparenza e richiamo tra le varie parti degli ambienti, e poi i singoli pezzi – di arredo, come sedie e poltrone, o anche ceramiche e vetri – che “abitano” le stanze e sono presenza attiva nel dialogo domestico quotidiano: i principi di base della linea moderna del disegno d’interni postbellico, sull’esempio americano e scandinavo, si ritrovano nella serie di schizzi del concorso. Chessa e Host Ivessich si dimostrano assai aggiornati nelle scelte stilistiche e frizzanti nel taglio grafico. Il primo immagina due grandi ambienti principali, soggiorno e stanza da letto, e risolve lo spazio pranzo a “stanza fantasma” mediante un tavolo “meccanizzato” a scomparsa che si sporge dall’armadio del cucinino.
I due sposi, figure stilizzate e filiformi, si servono del piccolo tavolino per le loro colazioni. Seduti su sedie a tre gambe dal nervoso profilo molliniano (in cromo e legno dipinto), sorseggiano il vino servendosi da un generoso fiasco impagliato. Il soggiorno è attrezzato da scaffalature continue che disegnano «un’ansa nella quale tutto è raccolto: sui ripiani i libri, le cose; negli sfondi, le fotografie, i quadri; nei vani, le “cassette” radio, grammofono, bar, armadietti, stipi». Completano gli arredi un tavolo in legno di faggio, alcune poltroncine Moretti in legno e tela («due verde erba e tre giallo Africa»), una sedia sdraio in gommapiuma e chinz colorato e due poltrone, una bianca e una nera, nella stanza da letto. In questo ambiente niente tende: «Siamo sui tetti, nessuno vede dentro e, se si vuole, ci si gode la città illuminata». Host Ivessich ribalta la disposizione proposta da Chessa: dove era il soggiorno va il letto e viceversa.
Scelta coraggiosa, quella della piccola cucina che si apre sul living senza appartarsi o chiudersi in sé come d’uso al tempo. In questo modo il flusso tra i due locali, mutuato dalla posizione del tavolo da pranzo, «vale a dare alla stanza soggiorno un movimento e un allargamento che assolve estetica e funzione». Anche in questo caso emerge l’accentuata linearità e leggerezza degli arredi ai fini di voluti effetti di “trasparenza”. Ecco allora il ritmo dei tubi metallici che si piegano ad angolo acuto per sorreggere il tavolo e le sedute, i piani sospesi, la lampada appesa al soffitto che disegna con il suo tubo flessibile una calcolato grafismo. A fianco della libreria, la figura “arcaica” incisa sull’intonaco rustico del muro rinvia a una tipica passione del tempo, quella per primitivismi e forme “brute”.
Le proposte degli altri concorrenti valgono come testimonianza del gusto medio del tempo e, anche quando si tratta del ripescaggio di stilemi di matrice pontiana, d’impronta più anni Quaranta che già quasi Cinquanta. Provvisto di tappeti, tendaggi, caminetto e boiserie con nicchie per oggettini alle pareti, il soggiorno di Agliardi e Giavarini è una pacata visione domestica, appena spruzzata di modernità, che si pone nell’alveo del consolidato decoro borghese (di conseguenza l’angolo con caminetto non può che essere «il luogo intimo di ritrovo famigliare»). Dioli e Farinella, da Ferrara propongono una stanza da letto che molto deve a certi arredi di Ponti. Così la complessa articolazione della testata del letto, una sorta di piccolo teatro, che sembra alludere all’invenzione pontiana della “parete attrezzata”. La prospettiva della cucina presentata dai due ferraresi suggerisce standard e modularità nella disposizione degli elementi, ma in realtà i dettagli esecutivi – vedi il piano in marmo «giallo Mori fiammato» – rinviano ancora al pezzo unico artigianale su disegno: del resto, progettisti e industria ci metteranno ancora anni per arrivare a soluzioni in qualche modo logiche e razionali. Agli ultimi autori del concorso spetta infine la serie di bozzetti – poltrone, lampade, scaffalature – che riducono, semplificandolo, il disegno d’interni a una scelta di mobili. Certo, in questo caso, un modo assai poco “pontiano” di pensare alla casa.
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