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Mostre 2021. “American Beauty” a Firenze

Mostre 2021. Gli artisti statunitensi contemporanei a Palazzo Strozzi

I turisti americani non sono ancora tornati a Firenze. Presto – dice rassicurante Gupta Ragini, console statunitense sull’Arno – lo faranno: la città ci spera, svuotata com’è dai suoi più fedeli visitatori. Nel frattempo, si celebra una specialissima “American Beauty” nelle sale rinascimentali di Palazzo Strozzi, a pochi passi da Santa Maria Novella. Sono riusciti infatti a sorvolare l’Atlantico, lasciando momentaneamente il Walker Art Center di Minneapolis per approdare a Firenze, 80 opere d’arte firmate dai più importanti artisti americani tra gli anni Sessanta e gli anni Duemila. Artistar come Andy Warhol, Mark Rothko, Roy Lichtenstein, Claes Oldenburg, Bruce Nauman, Robert Mapplethorpe, Cindy Sherman, Kara Walker. Firenze guarda all’American Dream (in tutte le sue agrodolci sfumature) nella grande mostra American Art 1961-2001, curata da Vincenzo de Bellis, curator and associate director per il dipartimento di Visual Arts al Walker, e da Arturo Galansino, direttore generale della Fondazione Palazzo Strozzi: l’esposizione apre al pubblico venerdì e si potrà vedere tutta l’estate (fino al 29 agosto, nello stesso palazzo che ospita, sulla facciata, anche la spettacolare installazione di JR). Vale il viaggio.

Roy Lichtenstein (New York 1923-1997), Artist's Studio No. 1 (Look Mickey), 1973
Roy Lichtenstein (New York 1923-1997), Artist's Studio No. 1 (Look Mickey), 1973

Il Walker Art Center di Minneapolis, che nasce come collezione privata del businessman Thomas Barlow Walker nel lontano 1874, diventa la prima galleria di arte pubblica a ovest del Missisipi e, nel 1940, è uno dei primi musei a esporre arte contemporanea in USA, ha un patrimonio di 12mila opere e, quale luogo di tutte le arti, è noto per il suo approccio multidisciplinare, con un occhio di riguardo per l’arte performativa. Minneapolis, Minnesota, non è esattamente la città del tipico “American tour” di noi europei e se a questo aggiungiamo il fatto che è la prima volta che il Walker porta parte della sua collezione Oltreoceano, si capisce l’importanza di questa mostra fiorentina. C’è poi anche una nota di cronaca, ed è tutt’altro che marginale: proprio a Minneapolis, un anno fa, veniva ucciso George Floyd nel modo che sappiamo. Di questo non si può non tener conto, mentre si visitano le ultime sale della mostra.

Kerry James Marshall (Birmingham, Alabama 1955) “BLACK POWER”, 1998
Kerry James Marshall (Birmingham, Alabama 1955) “BLACK POWER”, 1998

Dentro Palazzo Strozzi compiamo un viaggio crono-tematico (così lo ha definito il direttore Galansino, con sintesi efficace): seguiamo, decade dopo decade, la storia americana e i suoi riflessi nella produzione artistica dalla presidenza JFK e l’inizio della Guerra in Vietnam fino alla presidenza di George W. Bush e all’11 Settembre. È un’ epoca straordinaria, dal punto di vista creativo: la Pop Art degli Anni Sessanta spariglia le carte della tradizione, gli anni Settanta virano al concettuale e al minimalismo, gli anni Ottanta si muovono tra la ricerca dell’edonismo e del divertimento all’ammissione di debolezza (l’Aids devasta la scena artistica), gli anni Novanta vedono affacciarsi, finalmente, voci nuove, quelle delle minoranze prima inascoltate, i primi anni Duemila sono quelli, crudissimi, della denuncia dell’ineguaglianza. Questa è la linea del percorso espositivo, pensato da de Bellis e Galansino non per raccontare the whole American Art ma quella che il Walker ha, negli anni, collezionato. Quella che, oggi, ha più da dire a noi, che con la storia a stelle e strisce facciamo da sempre i conti.

Robert Indiana (Robert Clark; New Castle, Indiana 1928- Vinalhaven, Maine 2018), The Green Diamond Eat The Red Diamond Die, 1962
Robert Indiana (Robert Clark; New Castle, Indiana 1928- Vinalhaven, Maine 2018), The Green Diamond Eat The Red Diamond Die, 1962

Il percorso è scandito su 11 sale, con un prologo che mostra artisti nati in Europa ma poi vissuti quasi tutta la vita in USA, ponti tra il Vecchio e il Nuovo Mondo: su tutti, Mark Rothko. La seconda sala è quella più instagrammabile: eccolo, il sogno americano della Pop Art celebrato da Andy Warhol (con il capolavoro Sixteen Jackies, dedicata alla vedova Kennedy all’indomani della morte del presidente, e la Electric Chair, potentissima, quasi psichedelica), con davanti le “patatine” di Oldenburg, l’Artists’s Studio di Lichtenstein e il provocatorio lavoro di Robert Indiana The green diamond Eat The red diamond Die. La tentazione è di fermarsi qui: non è questa l’American Art che ci piace, così capace di osannare e al tempo stesso denunciare il consumo di massa? Troppo facile. In quegli stessi anni si cerca di ‘varcare i confini’ delle arti e di sperimentare: danza, musica, arte visiva lavorano insieme come dimostra la sala dedicata a Merce Cunningham, John Cage, Robert Rauschenberg e Jasper Johns. La sala successiva è quasi religiosa. Less is more, recita il titolo: eccoci nel minimalismo degli anni Settanta e onestamente è dura non commuoversi davanti ai tubi al neon di Dan Flavin e alle composizioni di Donald Judd, per non parlare del feltro di Robert Morris. Il clima è cambiato, l’America è diversa. Ogni artista reagisce a modo suo: una sala è dedicata alle performance di Bruce Nauman (una sua ampia monografica è ora in corso a Punta della Dogana, a Venezia, per la Pinault Collection), un’altra al genio istrionico di John Baldessari (‘I will not make any more boring art’, la sua promessa di non far più arte noiosa la leggiamo sulla carta da parati della stanza).

Bruce Nauman Art Make-Up, 1967-1968, pellicola da 16mm
Bruce Nauman Art Make-Up, 1967-1968, pellicola da 16mm

Altro che noia, qui c’è dolore, e acutissimo: siamo in un altro spazio, intimo, che segna gli anni Ottanta con le foto struggenti di Robert Mapplethorpe, le lucine di Felix Gonzales-Torres in memoria del compagno morto di Aids, l’installazione autobiografica sulla difficoltà di vivere la propria omosessualità alla luce del sole di Robert Gober e la poesia visiva di Jerry Holzer. Il registro poi cambia di nuovo: negli stessi annu la “pictures generation”, un gruppo di artisti che si nutre a suon di cinema, tv, magazine, si prende con prepotenza la scena. La più famosa è Cindy Sherman. ‘More voice’ titola la sala successiva: Clinton è presidente, gli anni Novanta danno spazio per la prima volta a voci “fuori dal sistema”, le cosiddette sottoculture. Anche adesso i lavori di Lorna Simpson e Jimmie Durham paiono pioneristici.

Cindy Sherman (Glen Ridge, New Jersey 1954), Untitled #92, 1981
Cindy Sherman (Glen Ridge, New Jersey 1954), Untitled #92, 1981

Nell’ultimo decennio l’arte americana goes West: LA diventa interessante centro propulsore della creatività e terreno fertile per artisti come Catherine Opie e Mark Bradford (oggi quotatissimo) che, insieme a molti altri, denunciano le differenze di genere e quelle sociali e razziali, oltre agli stereotipi incistati nella cultura popolare americana. Il cerchio si chiude con una doppia sala dedicata a Kara Walker che, sfruttando il collage, il disegno e i video, rilegge la storia made in USA alla luce della schiavitù, delle oppressioni, del razzismo. L’ultima immagine della mostra è Cut, un’opera del ‘98 in carta ritagliata: una donna nera, ritratta stilizzata a grandezza naturale, si taglia le vene dei polsi dopo aver subito violenza. L’immagine è di oltre vent’anni fa, fa ancora parecchio male.

Kara Walker (Stockton, California 1969), Cut, 1998
Kara Walker (Stockton, California 1969), Cut, 1998
Gene Pittman

In apertura: Andy Warhol (Andrew Warhola Jr.; Pittsburgh, Pennsylvania 1928-New York 1987), SixteenJackies, 1964

Matthew Barney (San Francisco 1967), Cremaster 2: The Drones’ Exposition, 1999
Matthew Barney (San Francisco 1967), Cremaster 2: The Drones’ Exposition, 1999


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