“La moda deve smettere di parlare di genere”: Jonathan Anderson, gli abiti e le cause LGBTQ+
Il fondatore di JW Anderson e direttore creativo di Loewe Jonathan Anderson sottolinea con forza il ruolo della moda nella valorizzazione della diversità, nel sostegno alle cause LGBTQ+ e per una maggiore libertà di espressione. Anderson è una delle 35 voci del mondo dell’arte e dell’attivismo LGBTQ+ — come la K-pop star Holland, la modella Hanne Gaby Odiele e la cantautrice Beth Ditto— ad aver contribuito al libro We Can Do Better Than This (Vintage, 2021), da cui è tratto questo saggio. Il libro, a cura dell’autrice di Queer Intentions (Picador, 2019) Amelia Abraham, affronta il vero significato dell’uguaglianza e di come possiamo conquistarla.
di Jonathan Anderson
Quando guardo alla storia della moda, mi accorgo di aver sempre avuto un’ossessione per le persone che si vestono in modo provocatorio, in particolare per le persone queer. E al di là del trito cliché dell’ammirazione per Oscar Wilde, trovo il suo modo di vestire estremamente romantico, e per quanto riguarda l’abbigliamento femminile, da tempo mi piace molto una pittrice britannica degli anni 20 del Novecento, Gluck. Probabilmente all’epoca sarebbe stata etichettata come lesbica, ma oggi potremmo considerarla in modo diverso. Indossava completi maschili e andava a Savile Row per farli modificare, perché le calzassero a pennello. Anche la scrittrice Fran Lebowitz è una mia eroina. Crede fermamente nel potere dell’outsider, e penso che il modo in cui veste, con i suoi completi gessati e smoking over, Fran rifletta proprio questo.
Le persone queer hanno sempre infranto le regole della moda, o, meglio, hanno sempre usato la moda per infrangere le regole della società. La moda può essere un modo di sperimentare con la propria personalità, o di capire la propria identità, e credo che i vestiti possano avere, a un livello più emotivo, un ruolo protettivo. Il modo in cui scegliamo di vestirci a volte può essere rischioso, ma i vestiti ci consentono anche di tenere alta la guardia, o di indossarli come armi.
A volte il modo in cui vestiamo segnala l’appartenenza a una sottocultura, a un certo gruppo di persone, ma può anche sottolineare la nostra individualità. Un modo di conformarsi, o di ribellarsi. Colleziono fotografie queer, e guardando le immagini di queste persone queer che partecipano alle proteste per la loro emancipazione negli anni 60 e 70 si nota che i loro abiti mandano un preciso messaggio politico. Gli abiti sono pieni di paradossi, ma più di ogni altra cosa ci fanno sentire più forti: e in un mondo in cui, storicamente, alle persone queer il potere è stato sottratto, questo può rivelarsi fondamentale.
Per me i vestiti sono sempre stati tutte queste cose, in momenti diversi. Sono cresciuto nell’Irlanda del Nord, e sperimentare con i vestiti mi ha aiutato a scoprire chi fossi. Andavo da TK Maxx e compravo tutto quello che era in saldo e che nessuno voleva: un paio di pantaloni arancioni, una grande felpa di pile rosa, una giacca fluo. C’era qualcosa che mi elettrizzava quando mi vestivo così, a contrasto con il grigiore in cui vivevo. Chiaramente quando andavo a giocare con gli altri ragazzini era un disastro, ma anche se mi bullizzavano non mi importava, perché sapevo che quello era il mio viaggio. Sono stato fortunato, perché i miei genitori avevano una mentalità molto aperta.
Mio padre era un giocatore di rugby e mia mamma un’insegnante, e ci hanno cresciuti in un ambiente inusuale per una famiglia nordirlandese durante The Troubles: non siamo stati educati né come protestanti né come cattolici, e ci hanno insegnato a non vedere le differenze fra le persone, e a non preoccuparci troppo di essere diversi. Per il modo in cui vestivo, ovviamente, le persone mi mettevano in discussione, ma penso che forse essere messo in discussione era proprio quello che volevo: volevo essere obbligato a conoscermi meglio attraverso lo scontro.
La mia passione per gli abiti stravaganti è restata forte anche quando sono andato a Londra. Indossavo cose di tutti i tipi, ogni giorno avevo un nuovo look. Ricordo che quando ero da Prada andavo a lavorare in pigiama, cosa che, credo, fosse un altro modo di farmi notare. Poi, a un certo punto, il mio approccio verso i vestiti ha cominciato a cambiare: ho capito che più lavoravo nella moda, più trovavo difficile decidere cosa mettermi al mattino, perché ero concentrato sulle idee per la nuova collezione.
Con il passare del tempo ho preso a indossare solo un paio di jeans e un maglione, il look con cui mi vedete più spesso adesso. Non direi che mi vesto così perché l’ho scelto, ha a che vedere con quello che faccio più che con quello che sono. Di sicuro non ho mai pensato, “Devo vestirmi in modo più maschile”. Ma lo facciamo tutti, in qualche modo: ci alziamo al mattino, ci laviamo i denti, ci vestiamo, ci guardiamo allo specchio e pensiamo a quello che siamo, o a quello che sentiamo di essere quel giorno. Alcune persone certi giorni si sentono più femminili, altri più maschili. E i vestiti ci aiutano a esprimerlo.
In un mondo che spesso, quando si parla di vestiti, si aspetta di vedere certe cose indossate da certe persone, in una società che vuole gli uomini, per dire, vestiti in un certo modo, e le donne in un altro, a volte mi chiedo perché faccio sfilate uomo e donna. Ma per me non si tratta di classificare le persone, significa usare queste categorie come idee, idee da prendere in prestito.
Quando facevo le mie collezioni menswear mettendo gli uomini in bustier e abiti-canotta, quello era il mio modo di chiedere alla gente di riflettere su ciò che rende una cosa ‘maschile’ o ‘femminile’, per cominciare. Mi piace lavorare sul menswear e sul womenswear in questo senso, perché così ho dei parametri contro cui scontrarmi, qualcosa da sovvertire o mettere in discussione, non perché io creda che le zip o i bottoni debbano essere applicati in un certo modo per gli uomini e in un altro per le donne. Mi piace anche molto l’idea del guardaroba condiviso, una mia fissazione è sempre stata la camicia bianca: su Robert Mapplethorpe è una cosa, su Patti Smith è qualcosa di completamente diverso, anche se si tratta dello stesso indumento.
Un certo indumento può avere diversi significati, un capo può essere modificato in tanti modi diversi. Un pittore ritrae un momento, uno stilista manda in passerella ‘un momento’. Non voglio dire ‘devi fare così’: è una proposta che fai alle persone, e le persone possono scegliere quel che desiderano di quella proposta. Spero sia questo il modo in cui la moda può aiutare le persone, ampliando le nostre idee sulla scelta e sulla libertà di espressione.
Nei media, oggi, la moda è diventata per certi versi il nemico pubblico numero uno. Siamo giustamente in un momento storico in cui stiamo considerando la moda come capitalistica, e lo è: è molto costosa. Io lavoro nella moda luxury, è qualcosa a cui ambire, ma, per la maggior parte della gente, è inaccessibile. Anche se le maison in questo momento scelgono più persone queer per le loro adv o per sfilare in passerella, molti brand internazionali pensano prima di tutto alle vendite. Alcuni brand esitano a diventare più inclusivi, temono forse che la rappresentatività LGBTQ+ possa allontanare una parte di clientela. Ricordo di quando ho fatto una adv per Loewe, più o meno sei anni fa, c’erano due uomini che si baciavano ed è stato chiaro che potevamo mettere quelle immagini solo nei negozi, non sui poster o sui manifesti per la strada. Alla fine, la campagna è stata limitata all’Europa. La moda più di ogni altra cosa è un settore orientato al mercato, lavorando in questo campo, posso incontrare delle barriere.
Ma al di là di queste barriere, credo che si possa usare la moda per educare le persone sulla storia queer, per raccogliere fondi per le cause queer, e dare più informazioni che possano essere d’aiuto alle persone queer. Con entrambi i miei brand ho collaborato con la P.P.O.W. Gallery di New York, utilizzando l’arte di David Wojnarowicz, che è stato un artista gay straordinario, per sensibilizzare il pubblico sul suo lavoro e sulle sue battaglie, e per raccogliere fondi a favore di Visual AIDS.
Credo che anche che la moda debba arrivare a un punto in cui non dovremo più parlare del genere di una persona, e delle persone vedremo solo la bellezza. Le persone che lavorano nella moda sono estremamente aperte, è un settore fatto di emarginati che amano la creatività, e il nostro lavoro dovrebbe riflettere questo, sostenere tante, tantissime idee diverse di cosa possa essere bello. Una rappresentatività più inclusiva nella moda può influenzare il mainstream, ha il potere di abbattere i confini del modo in cui vestiamo, e di mandare il messaggio che non ci sono regole.
Il mondo non sempre accoglie l’individualità o la diversità, ma grazie alla moda possiamo aprire nuove opportunità. La moda è basata sull’identità visiva, quando incontri qualcuno ti ci devi confrontare. È una sorta di storytelling di grande importanza, in particolare nell’ambito della queer culture: è un modo di mostrare sicurezza, ti aiuta a trovare le ‘tue’ persone. Potersi vestire come si vuole significa avere un'identità propria, andare per il mondo, così grande e cattivo, e dire: “Questo sono io”.
We Can Do Better Than This, a cura di Amelia Abraham (Vintage, 2021), esce il 3 giugno
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