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The way forward: la realtà virtuale

Già da tempo non si parla più di realtà virtuale, ma di “incorporazione” virtuale. Un processo in cui l’essere umano, con la fisicità traslata da un visore VR, fa ingresso in uno spazio dove la mente ha infinite possibilità di ricezione ma limitate chance di fuga, all’interno di un luogo costretto e sconosciuto. «Questo tipo di esperienze possono rivelarsi trasformative», teorizza Michael Madary, filosofo della mente, autore del primo codice etico per gli esperimenti VR e membro del programma VERE (Virtual Embodiment and Robotic re-Embodiment) finanziato dalla Comunità europea, «viaggi in grado di influenzarci in modi che a malapena ancora capiamo, ridefinendo la relazione stessa con le nostre menti e col nostro mondo».

Avventure che hanno un effetto immediato sulla taratura dei sensi, concordano neurologi e fruitori, anche dopo aver rimosso il visore: la texture della realtà appare più delineata, i colori più accesi, tutto si staglia in modo profondamente tridimensionale come osservato attraverso un’illustrazione di Maurits Cornelis Escher.

È la forma superiore e finalmente sotto controllo delle cosiddette O.B.E, Out of Body Experiences, che una persona su dieci sperimenta nella vita e la tradizione ha spesso consegnato al mistico e allo spirituale, quando in realtà sono solo fluttuazioni dentro la propria psiche, all’interno del proprio schema mentale del mondo. I viaggi permessi dall’incorporazione virtuale regalano di più: un viaggio dove la coscienza resta terrestre e nostra, così come il ricordo preciso del proprio corpo, che tocca e schiva, sente e trema.

Carne y Arena di Alejandro Gonzalez Inarritu ha condotto questo linguaggio (che per molti è un nuovo media) a un inedito livello di fruizione popolare. Presentato al Festival di Cannes del 2017 e poi replicato per mesi alla Fondazione Prada di Milano, è un’installazione di sei minuti e mezzo in cui si è proiettati al confine tra Stati Uniti e Messico, tra la pelle sudata e i passi degli immigrati centroamericani che tentano la traversata di notte. Un po’ teatro (le situazioni sono state ricreate), un po’ documentario (Inarritu ha realizzato l’ambientazione intervistando 120 persone che hanno compiuto il viaggio), Carne y Arena è un teletrasporto che si compie entrando in una stanza buia, scalzi e camminando su una superficie di sabbia portata apposta dal Messico, in mezzo a questa umanità di cui normalmente si sente solo l’eco: «Ciò che volevo, era ricreare prima di tutto un impatto fisico» ha spiegato il regista, «e tramite quello, colmare il gap di compassione che abbiamo verso chi vive certe tragedie».

E non si tratta di un’ambizione da poco, in una dimensione nuova dove nulla si può toccare e tantomeno si può esser toccati. Ed è proprio questo confondersi tra consapevolezza e non consapevolezza, questo agire l’uno verso l’altro come un ascensore installato nella spina dorsale dei sensi, che determina il moltiplicarsi dei viaggi virtuali. Che si stanno lentamente allontanando dall’idea che ne avevano pionieri come Jaron Lanier, l’autore del libro di culto L’alba del nuovo tutto (Il Saggiatore), in cui immaginava avventure fatte di enormi piovre color ametista che spalancando la bocca mostravano stanze da letto in cui coricarsi a dormire, sperando di non essere sbranati dalla bestia. Una VR freudiana, si credeva, che fosse catarsi delle lacrime e delle fantasie bloccate dell’infanzia.

(Continua)

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In apertura: Icarus, by Lemieux Pilon 4D Art. Photograph courtesy of Press Office.

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