Casa Vogue. Il Crazy Horse di Parigi
The show must go on, lo spettacolo non si ferma. Facile a dirsi, un po’ meno e un po’ più faticoso (per tutti) a farsi. Di questi tempi, poi. Ma lagnarsi è inutile, ci vuole pazienza e molta, come sanno i tanti professionisti dello spettacolo – dal cinema, al teatro, all’intrattenimento più leggero – che stanno affrontando il momento tra mille difficoltà. Sono discorsi che sentite e leggete ogni giorno, inutile annoiarvi ulteriormente. Allora, per dare un po’ di colore e di brio, vi riproponiamo la storia di uno dei templi autentici dello spettacolo, il Crazy Horse di Parigi. Il prossimo anno celebrerà i 70 anni. E, se qualcuno dovesse trovarsi a Parigi, sappia che è riaperto con le dovute cautele. Quanti locali possono vantare una storia come quella dello strip club più noto al mondo? Niente crazy girls, però, spiacenti. Casa Vogue, nell’aprile 2013 del Crazy Horse si era “limitato” a raccontare quanto il design degli interni fosse cambiato e perché. Facendo anche un’incursione nel backstage.
Vabbè, dite, ma le ragazze? Una prossima volta, chissà. C’è infine (questo è il motivo per cui lo riproponiamo), nella storia del Crazy Horse e nel racconto che ne fa la sua direttrice, un bel messaggio che dice quanto sia importante l’identità di un luogo, quanto vada rispettata e mantenuta, attualizzandola ai tempi che cambiano. Insomma, anche la follia perché tale sia va progettata. E con cura.
(Paolo Lavezzari)
Le temple des femmes. The Crazy Horse, Paris, France
Basta pronunciarne il nome per scatenare la fantasia di uomini e donne. La cornice intimista, gli spettacoli audacemente glamour, le proiezioni con ammalianti giochi di luci che vestono i corpi delle ballerine ne fanno, ancora oggi, un luogo unico. Benvenuti nelle atmosfere da boudoir del Crazy Horse, il tempio della notte parigina. Dopo la scomparsa di Alain Bernardin, che lo aveva fondato nel 1951, portandolo alla popolarità internazionale, il cabaret è stato gestito dai figli, per poi essere acquistato, nel 2005, da investitori belgi.
La franco-americana Andrée Deissenberg, direttrice generale del locale dal 2006, lo ha rilanciato con un nuovo spettacolo e un nuovo arredamento, rispettando scrupolosamente quello spirito sexy che al Crazy è di rigore. Mi riceve nel suo ufficio, che funge anche da sala di danza e sala prove; una lastra di vetro fumé appoggiata su cavalletti divide gli spazi.
«Mi sono formata al Cirque du Soleil, dove sono arrivata a ventiquattro anni. Ho appreso lì il gusto dello spettacolo. Tradizionalmente, il cabaret e il circo non sono considerati arti nobili: né opera né danza, sono un po’ marginali rispetto ad altre forme artistiche di intrattenimento».
Al suo arrivo, Andrée ha trovato un Crazy ormai datato, polveroso. «Manteneva però un cuore artistico, un autentico savoir faire. Era una bella addormentata da tempo. Abbiamo dovuto risvegliarla dolcemente, rinfrescarla, metterle un po’ di fard». L’idea di Andrée era semplice: somministrare al Crazy un’iniezione di creatività. «Stava banalmente ripetendo se stesso, viveva sulle glorie del passato. Esteticamente, il posto era ancora magnifico. Detto questo, sono intervenuta velocemente». A una cena, Andrée incontra Dita Von Teese. In comune hanno la giovane età, le origini americane, l’amore per lo spettacolo. «Ho cominciato il nuovo corso con Dita perché lei rappresenta l’essenza della guest star ideale; pin-up e stripteuse, ha rievocato gli anni 30 e 40, gli inizi del Crazy e li ha attualizzati, rivisitati, in una chiave più glamour».
Vengono ideati i primi nuovi show, per ospiti come Arielle Dombasle, Pamela Anderson, Clotilde Courau, ma il loro allestimento si presenta ogni volta macchinoso: «La causa erano gli impianti scenotecnici ormai obsoleti. Già in passato venivano proiettati filmati che erano in analogico. All’epoca, la regia era posta a lato del palco, mentre in ogni teatro è frontale». Una sistemazione che intralciava, era incoerente: «Quando il regista regolava le luci, era di fatto in scena». Anche il rifacimento della platea voluto da Bernardin appena prima di morire costituiva un problema: «Era divenuta certamente ottimale per numero di posti, ma convivialità, modularità, intimità non c’erano più». Lo spettatore, schiacciato come in un cinema, poteva al massimo salutare i vicini di posto; alla fine dello show, si accendevano le luci, il pubblico usciva, ed era tutto.
«Nell’estate 2007 abbiamo rifatto il look alla sala. La cosa più importante è stata rispettare il luogo, collocarlo nella sua storia; in qualche modo, volevo che si avesse l’impressione di entrare nel Crazy degli anni 50». Oggi si bada poco a conservare l’anima di un locale storico, «invece, è un elemento che va preservato». E se un domani il Crazy aprisse a New York o a Tokyo, perché non dargli un’impronta super design? «Si potrebbe fare. Ma qui, a Parigi, concettualizzare lo spazio originale sarebbe stata un’eresia. Mi sono limitata a creare dei divisori e dei passaggi per migliorare la visione degli spettacoli. Al centro della platea sono riapparsi i tavolini, che creano un’atmosfera molto intima, mentre sui lati corrono file di sedili chiamate “il banco dello studente”; ciascuna accoglie una ventina di spettatori. Sul fondo, i box per i vip, che ricordano curiosamente i palchi dell’opera; da lì si vede tutto, lo show e il pubblico».
Andrée ha vinto la sua scommessa, riuscendo a creare una nuova sala, un ambiente ovattato che assomiglia stranamente a quello di prima. C’è l’imprescindibile rosso spiccatamente “Crazy”, declinato in un velluto cangiante e delicato, mentre il tappeto sul pavimento della sala riporta il motivo d’epoca, rifatto identico. Tutti i box e i palchi dispongono di tavolini per servire, nel secchiello per il ghiaccio, lo champagne cuvée speciale “Crazy”. I muri, infine, sono stati arretrati di un metro e mezzo per fare spazio, accanto al bar, alla nuova sala regia frontale, che controlla l’aggiornato impianto sonoro e un vero video proiettore ad alta definizione, automatizzato.
Risultato: un’atmosfera più conviviale e “dinamica”, e il personale più motivato che mai.
L’interno dell’edificio dove ha sede il Crazy è un autentico labirinto. I corridoi, spesso molto stretti, si susseguono in un modo che rende facile perdersi. Sul fondo della sala, situata nel seminterrato, una porta conduce al sacro ufficio del fondatore, il quale lì creava e riceveva gli amici e le celebrità che ogni sera erano nel suo locale: Aristotele Onassis, Al Pacino, Stavros Niarchos, Ennio Morricone, Diego Maradona, John Huston, Rudolf Nureyev, John Kennedy, Otto Preminger... A un bivio, una scala a chiocciola porta direttamente nei recessi del Crazy, dove il pubblico non è ammesso. Qui tutto è su misura: gli uffici, la sala di danza, i camerini, stretti e intimi; una bilancia ricorda con humour che non sono permessi chili di troppo: si deve mantenere il peso d’ingresso, quello ideale.
«Al Cirque ho imparato che non si deve riposare sugli allori, “never ever”. La volontà è l’essenza stessa del Crazy», continua Andrée, che nell’estate 2008 ha contattato il coreografo e regista francese Philippe Decouflé, al quale si deve l’attuale rivista “Désirs”. «Ci vogliono quattro mesi per trasformare il linguaggio del corpo di una ballerina classica in quello di una “Crazy girl”». Quali sono le condizioni imprescindibili? «Deve adottare il look “Crazy”, cioè pettinatura con frangia, ciglia finte, occhi bistrati e labbra carnose rosso “Crazy”. Poi c’è il portamento, la postura della testa e della schiena, che deve adeguarsi al linguaggio coreografico degli show». Ma è anche una questione di stato mentale: «In un certo senso, ci piace prendere delle cose e stravolgerle, come accadrebbe se un amministratore delegato donna si spogliasse per far risalire i titoli in borsa. Le ragazze devono avere il carattere giusto per entrare in un personaggio. Una Christine Dupont, ad esempio, può divenire Zula Zazou o Nooka Karamel... Creiamo emozioni, sguardi, movimento, e tutto questo diventa lo show. Non siamo ancora al cento per cento: è un processo di crescita organico, ha tempi fisiologici». Si direbbe che la prima a essere infettata dal “Crazy virus” sia stata proprio Andrée. Che conclude: «È chiaro che non sono ancora guarita».
from Articles https://ift.tt/33fYzWc
Comments
Post a Comment