Antologia di Casa Vogue. Grandi progetti a Venezia
La celebrazione dei 1600 anni dalla fondazione di Venezia è l’occasione per riproporre alcuni articoli che nel tempo l'hanno vista protagonista sulle pagine di Casa Vogue – ora nel racconto di nobili palazzi e dei loro abitanti, ora perfino in quello di sestieri. Si comincia con questo articolo apparso nel lontano aprile 2002 che ripercorre tre vicende sfortunate per diversi motivi. Protagonisti sono altrettanti giganti dell’architettura, quelli cui l’appellativo di “Maestro” calza alla perfezione. Sono storie che coprono un arco temporale abbastanza lungo, dai primi anni 50 ai confini dei 70. Non sta a noi giudicare i perché e i percome quei progetti non arrivarono a compimento; l’articolo ne descrive le vicende con precisione dando tutti gli elementi per farsi un’opinione precisa. L’iniziale accenno ai “ponti di vetro” rimanda ovviamente alla discussione che già allora stava accompagnando il progetto di Calatrava quando ancora non era in costruzione. Nel frattempo, tante cose sono successe: il ponte è stato costruito, dal 2002, con il suo seguito di polemiche non ancora terminate. Il Mose, cominciato nel 2003, è stato ultimato con il suo seguito di polemiche. Punta della Dogana e Palazzo Grassi ospitano opere della Collezione Pinault di arte contemporanea, con il loro seguito di polemiche etc etc. (Paolo Lavezzari)
Ponti di vetro, strutture futuristiche, nuovi spazi museali, recuperi ambientali: sono alcune delle parole d’ordine sulle quali si sta muovendo concretamente la trasformazione di Venezia. Dei progetti grandi e piccoli se ne parla spesso, e forte è l’attesa di vedere qualcosa di nuovo nella “repubblica dei castori”, come la chiamò Goethe. Ma se la storia è magistra vitae è bene anche rileggere, quantomeno a monito, tre non lontani e dimenticati episodi nella storia lagunare: le bocciature senza appello dei progetti pensati ad hoc per Venezia da tre padri dell’architettura contemporanea. Il primo incontro di Venezia con un Maestro del moderno risale al 1952, quando la famiglia Masieri commissiona a Frank Lloyd Wright il progetto per una casa degli studenti di architettura sul Canal Grande, in memoria del figlio prematuramente scomparso. «Amando Venezia come io l’amo», scrive Wright, «ho voluto, attraverso l’uso di tecniche moderne, far rivivere l’antica tradizione veneziana». L’edificio progettato da Wright insiste su un lotto triangolare e si sviluppa liberamente in altezza terminando, alla veneziana, con una terrazza fiorita. Le grandi finestre lasciano intuire lo spazio interno.
La facciata è il tramite con la città e coglie, con il senso del colore e dei materiali, una delle caratteristiche più importanti della città lagunare: la qualità plastica. «Sorgerà dall’acqua come un fascio di grandi canne, che si vedranno al di sotto della superficie dell’acqua stessa». Il Masieri Memorial è uno spazio assolutamente wrightiano, nel richiamo ai temi naturalistici e all’organicità dell’architettura, ma integrato in modo forte con il clima della città. Subito contestatissimo, il progetto non vedrà mai la luce.
Una nuova importante occasione per la città arriva qualche anno dopo col bando di concorso per l’Ospedale civile nell’area di San Giobbe: a vincerlo è Le Corbusier. Già dai primi sopralluoghi il Maestro capisce che qui non si può costruire in altezza, ma bisogna invece costruire “senza costruire”. «Venezia è una totalità. Nella sua attuale conformazione è un fenomeno unico, di totale armonia, d’unità civile e di purezza integrale». Già nel 1941, in uno straordinario scritto pubblicato, “La lezione della gondola”, Le Corbusier prendeva la città lagunare come riferimento, «esempio folgorante per chi voglia capire a quale ricchezza, a quale grado di incredibile perfezione umana può condurre un sistema corretto». Imparare da Venezia, allora. Imparare dall’acqua. Imparare l’unità con l’ambiente. Il tema dell’ospedale viene affrontato in maniera innovativa, con un impianto planimetrico a sviluppo orizzontale. L’edificio è una piastra sostenuta da pilotis, riferimento alla città costruita sull’acqua. L’ospedale è pensato come una “casa per l’uomo”. La stanza di degenza è il modulo di base. Le cellule sono individuali, ogni malato ha il suo spazio, senza distinzioni sociali. Le camere sono illuminate dall’alto grazie all’inclinazione delle coperture, secondo lo schema delle architetture industriali a shed. Il progetto vede numerose modifiche e dopo la morte di Le Corbusier nel 1965 viene continuato nell’atelier veneziano dai suoi collaboratori, per poi bloccarsi definitivamente al momento dell’approvazione.
Arriviamo al 1969. La città ha bisogno di un Palazzo dei Congressi. Nessuna struttura esistente può ospitarlo, né per dimensioni né per funzionalità. L’incarico per l’ideazione di un nuovo edificio nella zona dei Giardini viene assegnato a Louis Kahn. Il suo progetto è incentrato sul rapporto dialettico tra terra e acqua: il palazzo è un ponte poggiato su piloni di calcestruzzo che contengono gli elementi di risalita, la grande sala al piano terreno è sormontata da tre sale più piccole, coronate da cupole in anelli di vetro e acciaio inossidabile. Il rapporto che Kahn instaura con il contesto veneziano è di forte scambio emotivo, di rispetto per ogni elemento fisico, per ogni singolo albero. La volontà è quella di creare un “luogo di incontro per gli uomini” e, ad esempio, la forma del ponte è un’interpretazione del luogo nonché metafora di una congiunzione con il passato: «Venezia è un’architettura di gioia. Mi piace il luogo come insieme, dove ogni edificio contribuisce all’altro. Un architetto che costruisce a Venezia deve pensare in termini di armonia; mentre lavoravo sul mio progetto era un continuo chiedere dentro di me, a tutti gli edifici che amavo così tanto a Venezia, se mi accettavano fra di loro».
Anche i disegni di Louis Kahn non prenderanno forma. Questi tre progetti, così diversi e così ugualmente speciali, pur essendo occasioni mancate per Venezia, hanno comunque lasciato un segno nella storia della città e nella cultura architettonica italiana. Oggi come ieri, costruire con un linguaggio contemporaneo in contesti così delicati è ancora molto difficile. Rileggere il passato, anche in progetti mai realizzati come questi, aiuta a riflettere sulla necessità di dar fiducia a quella “buona” architettura che ascolta i luoghi e la loro storia. Che vuole apprendere, cioè, la “lezione della gondola”.
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