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Cosa devono fare i bianchi ora, secondo Emma Dabiri

Ci sono state molte polemiche su Internet all’annuncio del secondo libro della docente della SOAS University of London Emma Dabiri, What White People Can Do Next: From Allyship to Coalition (Penguin, 2021), dopo il suo best seller del 2019 Don’t Touch My Hair. Alcuni temono e lamentano che gli editori stiano sfruttando la riflessione stimolata dal movimento Black Lives Matter a fini commerciali, commissionando à gogo guide antirazzismo che insegnano ai bianchi come comportarsi meglio.

“Mi hanno avvertito di alcune reazioni”, dice Dabiri, “e mi sono sentita davvero frustrata. Volevo difendermi ma ho dovuto lasciar perdere e dire, ‘Lo vedranno poi’”. Infatti, la scrittrice concorda con le critiche ai libri contro il razzismo – ma il suo nuovo lavoro, sorprendentemente, mette in discussione questo genere letterario e il modo in cui i social media hanno dominato il discorso sulla razza e sul razzismo.

Quando Dabiri parla con Vogue, ha appena scoperto che What White People Can Do Next è diventato un best seller del Sunday Times e dell’Irish Times – molti di quelli che l’avevano scartato a priori considerandolo un libro che si rivolgeva ai bianchi ‘colpevoli’ hanno scoperto che era invece un’innovativa critica alla conversazione sui social con un’analisi storicamente fondata dell’antirazzismo, del collettivismo, del neoliberalismo e del post-colonialismo. Ci siamo seduti al tavolo con l’autrice per parlare della scrittura del libro e della sua estetica sovversiva.

Il suo nuovo libro viene definito un cavallo di Troia – la copertina somiglia a un ‘manuale contro il razzismo’ come tanti altri, mentre il contenuto contesta il genere. Qual è stata la ragione di questa strategia?

“È stato fatto apposta – stavo usando il linguaggio e la cornice del genere contro il razzismo per presentarlo e analizzarlo. Amo la sovversione. Mi piacciono le cose che non sono quello che sembrano al primo momento. Viviamo in tempi piuttosto prosaici, dove tutto è esattamente quello che dice di essere. Quindi volevo fare una cosa inaspettata, usare il linguaggio di adesso, e metterlo in discussione.

“Quanto alle reazioni della gente alla copertina, mi ha creato un po’ di disagio il non poter rivelare chiaramente le mie intenzioni. Nel libro, alla seconda pagina parlo dei problemi che comporta il tentativo di parlare a un gruppo generico di persone – parlo dei bianchi come categoria generica per appianare le differenze.”

Il titolo si rivolge ai bianchi, ma contiene insegnamenti per persone di tutte le etnie. Cosa possiamo imparare tutti da questo libro?

“Questo libro è per tutti, ma se si fosse intitolato Cosa possono fare tutti adesso non avrebbe avuto lo stesso impatto. Provo un profondo senso di gratitudine e un forte legame con i letterati e gli intellettuali che mi hanno preceduta e la cui presenza pervade tutto il libro – come lo storico inglese Paul Gilroy, il romanziere americano James Baldwin e l’attivista politica americana Angela Davis – e ci sono anche altre persone che hanno fatto un sacco di lavoro. Questa non è la prima volta che si affrontano questi problemi – sembra quasi che le azioni contro il razzismo siano una cosa nuova. Ma questi discorsi vanno avanti da secoli – il 2020 non è l’anno zero. Voglio basare il movimento su quelli radicali del passato, da cui possiamo imparare tantissimo.

“Le nostre conversazioni online oggi sono pervase da questa energia neoliberale, profondamente competitiva e individualista. Il tutto amplificato dal ‘capitalismo delle piattaforme’ cioè gli ecosistemi economici digitali che fanno soldi consentendo a terze parti di trarre profitti attraverso cui la gente costruisce i brand e la propria identità attivista. Viviamo in un momento storico diverso e dovremmo stare attenti a certe tensioni, eppure non mi sembra che lo siamo”.

Nel libro, descrive i social come un ‘calice avvelenato’ e uno spazio che ‘ludicizza la divisione’. Quali ritiene essere i problemi delle conversazioni online sulla razza che sono ‘progressiste’ solo di nome?

“Ho molti problemi con gli spazi online in cui avvengono queste conversazioni e con i parametri che vengono usati. Uno dei problemi fondamentali è il dare per scontata l’esistenza della razza – ossia il fatto che quando parliamo con i bianchi e con i neri, non mettiamo in discussione il concetto di razza. Diciamo che il razzismo esiste e che è un male, ma trascuriamo di vedere che se continuiamo a rafforzare e avvalorare una visione del mondo fortemente razzializzata, il risultato non potrà che essere il razzismo.

“Il sistema della razza è stato inventato per creare il razzismo. Quindi, non è solo questione di far diventare i bianchi più gentili attraverso lusinghe e suppliche, pretendendo, pregando o educando – è questione invece di contestare la tassonomia razziale e i concetti come bianchi e neri”

Lei scrive che molta parte della conversazione online contro il razzismo si riduce al pretendere che i bianchi ‘rinuncino ai loro privilegi’. Perché pensa che questo sia un modo infruttuoso di cancellare il razzismo?

“Quando ho scoperto il saggio del 1989 di Peggy McIntosh, attivista americana, White Privilege: Unpacking the Invisible Knapsack e il concetto di privilegio bianco circa dieci anni fa, all’inizio ero tipo ‘Oh, fantastico. Questa idea del privilegio bianco mi piace, il modo in cui i bianchi possono vivere derazzializzati.’ In un primo momento ho pensato fosse un linguaggio utile, ma pare diventato del tutto slegato [dall’idea di partenza] perché non c’è alcuna coerenza sulla definizione di privilegio bianco.

“Se il privilegio bianco consiste nello stare al mondo senza essere definiti come razza, nel vivere sentendosi semplicemente delle persone mentre tutti gli altri o sono neri o sono asiatici, come si può eliminare la discriminazione? Ma io vedo che non è neanche questo che si pretende – bensì la parità economica, la pari remunerazione e il pari accesso alle risorse. Quindi dovremmo invece pensare alle classi e al capitalismo, ma di questo pare che non si parli”.

L’anno passato ha visto l’ascesa dei ‘sistemi infografici’ sui social, con tutto, dalle crisi umanitarie a testi accademici di spessore, condensato in una manciata di slide su Instagram. È un modo utile di acquisire conoscenza?

“C’è un hashtag ‘do the work’ e alle persone sembra piacere molto dire agli altri tramite infografiche di ‘fare il lavoro’, ma loro non mi pare che lo facciano, questo lavoro. ‘Fare il lavoro’ per me vorrebbe dire interessarsi alla teoria, leggere i testi da cui traiamo citazioni e slogan. Questi vengono spesso presentati fuori contesto, distorti e snaturati. E in contrasto con il pensiero profondo che li ha generati, diventano riduttivi.”

Quindi cosa possono fare i bianchi adesso?

“In primo luogo, voglio che la gente capisca che la razza bianca e la razza nera sono state create per disumanizzare le persone che sono poi state discriminate come nere. Si è voluto giustificare il loro sfruttamento, perché le economie dell’occidente stavano diventando sempre più dipendenti dal lavoro degli schiavi neri, e al centro del concetto di razza bianca c’era un’idea di superiorità. Si investe molta energia nel dimostrare che il razzismo esiste. Se solo tutti sapessero che la razza bianca è stata inventata per promuovere l’idea della superiorità bianca, potremmo smettere di stupirci dell’esistenza del razzismo e degli infiniti esempi di razzismo che vediamo”.



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