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Antologia di Casa Vogue. Giovanni Gastel e il Vivaio di Capalbio.

Dalle atmosfere cariche di ombra, storie e ricordi che segnavano il servizio sulla residenza della marchesa Luisa Casati ripubblicato la scorsa settimana, con un totale cambio di prospettiva passiamo per questo secondo ricordo di Giovanni Gastel al plein air assolato della bassa Maremma, reso dal fotografo in tutta la sua intensità. Ancora oggi appare assolutamente bizzarro se non unico lo studio agreste realizzato con grandi balle di paglia. Apparso nel numero di Casa Vogue di giugno 2003, il servizio venne curato per la parte di set design da Alessia Glaviano, oggi Brand Visual Director di Vogue Italia. Una nota di cronaca triste: Giovanni Sanjust, protagonista di questa storia, scomparve  nel 2014 proprio in questa tenuta di Capalbio per un incidente fatale mentre lavorava nei campi. (Paolo Lavezzari)

Il vivaio di Giovanni Sanjust in Maremma confina con il lago di Burano, ex palude sanata negli anni Cinquanta, e il Tirreno. Dove si estende un meraviglioso, breve tratto di costa frastagliata e di macchia mediterranea: dodici chilometri di spiaggia, quattrocento ettari d’oasi protetta dal WWF celebre per le sue bellezze naturali (come le farfalle Jasio, tra le più grandi e rare in Italia) e per essere una sorta di Hamptons italiano. Il borgo medioevale di Capalbio, ultima cittadina toscana al confine con il Lazio, sovrasta questo tratto di campagna e di mare dalle infinite sfumature di verde e azzurro. Boschi di quercia e piante di corbezzolo, ginepri e filari di vite, ulivi e palme arrivano fin lì per dissolversi nelle dune di sabbia che precedono il Mediterraneo. È una terra di contrasti che si conciliano in una straordinaria bellezza e armonia, il mare e il lago, la campagna e la macchia. Da un lato il monumentale reperto d’archeologia industriale che è la ex centrale nucleare di Montalto di Castro, le sue ciminiere che svettano sulla spiaggia; poco più in là, immerso nel verde, il Giardino dei Tarocchi con le sue sculture ciclopiche realizzato dall’artista francese Niki de Saint Phalle negli anni Ottanta, all’interno della proprietà della famiglia Caracciolo. 

Le culture e le religioni antiche hanno sempre dato al giardino una valenza simbolica, magica e soprattutto religiosa: vi si associa infatti l’idea del paradiso, dove l’uomo e la donna hanno vissuto in armonia con la natura. Di là dal cancello che divide il “campo” di Giovanni Sanjust da tutti gli altri campi capalbiesi vi è questo luogo sicuramente inaspettato e diverso. Non una semplice azienda agricola, ma un piccolo eden privato, con un’armonia dettata dalla sensibilità e dal talento del suo proprietario. Un luogo speciale. Un’installazione permanente di arte contemporanea nel verde, uno spazio fatto per se stessi e per coltivare le piante, dove vivere secondo una personalissima filosofia, seguendo il succedersi delle stagioni e degli eventi atmosferici. Il giardino non è appartato, ma un’estensione all’aperto degli spazi di vita, dove il tempo scorre con un ritmo diverso da quello rapido e frenetico della città: un tempo per la meditazione e la contemplazione, scandito dal cambiamento naturale della luce, dalla creazione, dall’arte. 

Giovanni è infatti un artista. Nei suoi quadri e nelle sue sculture è continuamente riflesso l’amore per la terra, per la natura che lo circonda e per i suoi simboli. L’albero è un tema costante nelle sue opere: alberi grandi e ramificati, simbolo di forza e fertilità, abbondanza e pace. Questi tre- dici ettari di azienda agricola contengono tutta la poeticità di un animo incredibilmente sensibile. A ogni cespuglio, angolo di giardino o di orto corrisponde un pensiero, un concetto, un’idea fantastica realizzata con fatica e passione. Il “campo”, così com’è familiarmente chiamato, è la sintesi di uno spazio extraurbano, artificioso, tipica interpretazione del giardino rinascimentale e allo stesso tempo del caos ordinato nella spontaneità della natura tanto ricercato dal gardening inglese. Vagano in libertà nell’affascinante e ipnotico labirinto di lecci – meticolosamente progettato da Giovanni per il figlio Giorgio – pavoni e soprattutto galli, grande passione dell’artista: provengono dalla Malesia e dalla Thailandia, e sono stati scelti, importati e allevati dal loro proprietario. I più grandi e colorati arrivano dall’India: sono i galli Brahma, che derivano il nome dal Dio della creazione. Per prima li volle in Europa la regina Vittoria che amava dire: «Nessun giardino che si rispetti ne può essere privo». Più in là il Giardino delle pietre, dove ogni singola pietra proviene da un luogo diverso e porta con sé un significato simbolico. Sono dodici, una per ogni mese dell’anno, disposte in modo strategico in funzione del paesaggio, e fungono da calendario. È qui che pascola anche una mandria di bellissime mucche maremmane dalle immense corna. Ci ricordano che siamo nella terra selvaggia della Maremma, dei butteri e degli etruschi. Poi, poco distante, il terreno cambia leggermente di livello, si alza, sino a nascondere e contenere un grande bacino; Giovanni lo ha riempito d’acqua, una sorta di lago naturale con profondità diverse. Il fondale di sabbia rende il colore dell’acqua molto naturale. Il piccolo lago non ha una funzione esclusivamente estetica: ogni due giorni viene svuotato e con un particolare sistema idrico si irriga tutta la proprietà. 

Visto da qui, il “campo” assume un aspetto che ricorda uno spaccato di savana africana, dove l’orizzonte non ha confini, e l’improvviso passaggio di un elefante non creerebbe, sinceramente, alcuno stupore. Tre strutture fatte di “mattoni” di balle di fieno e decorate al- l’esterno in modo geometrico da piccoli cipressi sono il luogo dove ripararsi. Capanne perfettamente attrezzate, funzionali e abitabili. Ognuna corrisponde a una diversa esigenza: c’è quella per il relax, lo studio per dipingere e riporre gli arnesi, quella per cucinare all’aperto, vestirsi e dormire. La più alta e imponente è chiamata “la torre”: la sola struttura a non avere il tetto, è il luogo scelto e costruito per osservare le stelle nelle notti estive. La grande civetta dipinta su una tavola verticale, con sfondo nero notte, domina la stanza di paglia dedicata al riposo. È integrata nell’ambiente, come se quella fosse la più naturale delle sue postazioni. Una pianta carica di limoni delimita l’entrata; spaziosi e comodi letti fatti con il fieno e preparati con lenzuola di lino si confondono con il pavimento anch’esso di paglia; intento a brucare c’è un rinoceronte di cuoio che verosimilmente sembra essere capitato lì per caso. Una mensola di legno carica di libri, di foto, di oggetti d’uso comune fa da comodino. Alcune uova di gallina non ancora raccolte e depositate per puro caso in un angolo arredano la stanza, sembrando una formidabile trovata decorativa, ma in realtà tutto è casuale. 

Il giardino è il proseguimento naturale di questa residenza all’aperto, e sottolinea il rapporto di perfetto equilibrio tra i “rifugi” edificati e la natura circostante. I quadri, tutte opere del padrone di casa, sono come finestre che si affacciano su scene bucoliche e paesaggi inventati. L’effetto trompe-l’oeil è assicurato: attraversano le pareti, dilatano lo spazio dando un’illusione di continuità, di diversa prospettiva. Come il “campo”, questi quadri rispecchiano la bellezza e l’armonia che la natura ci offre, la costanza che il lavoro della terra richiede, la poesia che il germogliare della natura trasmette. L’Alice di Lewis Carroll per cercare il suo paese delle meraviglie, andava al di là dello specchio; a Giovanni – che vive in questo luogo con la compagna Dalma, top model negli anni Ottanta – basta invece varcare il cancello del proprio “campo”, custode della memoria e dei simboli che appartengono al mondo delle meraviglie da lui faticosamente creato.



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