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Intervista a Raf Simons: «Volevo solo fare dei vestiti»

«Quando ho cominciato non stavo a guadare le griffe di LVMH e tutto quello che girava intorno a quel tipo di mondo e ai direttori creativi», ha detto Raf Simons durante la sua conversazione con Alexander Fury alla sede della Borsa di Anversa per la quarta edizione dei Fashion Talks - la sua prima apparizione pubblica dopo l’uscita da Calvin Klein a dicembre 2018. «Mi rapportavo soltanto a Walter Van Beirendonck, Ann Demeulemeester, Dirk Van Saene, Dries Van Noten e Martin Margiela, che facevano il loro lavoro, in modo indipendente».

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Getty Images

Anche Simons ha seguito un percorso simile a quello dei suoi connazionali, fondando la sua etichetta omonima nel 1995, ma i capitoli più recenti della sua carriera l’hanno visto entrare nell’orbita delle grandi corporate della moda. Ha cominciato nel 2005 da Jil Sander, allora parte del Gruppo Prada. Sette anni dopo è diventato direttore creativo di Dior, marchio posseduto da LVMH, dove è rimasto tre anni. Dopo quasi un anno di pausa è stato ingaggiato da Calvin Klein (nel 2016), con il compito di rilanciare la linea di fascia più alta della società di Manhattan, rinnovando l’immagine del prêt-à-porter luxury battezzata Calvin Klein 205W39NYC. Nonostante gli elogi della critica, però, le profonde riflessioni di Simons sull’identità americana nell’era di Trump non hanno avuto il ritorno economico sperato.

Calvin Klein 205W39NYC Autunno/Inverno 2018-2019 by Raf Simons

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Calvin Klein 205W39NYC Autunno/Inverno 2018-2019 by Raf Simons
Getty Images

«I grandi marchi oggi guardano troppo al marketing e al profitto ed è raro che uno stilista riesca a tener dietro a entrambe le cose», ha detto Simons, disapprovando la generale tendenza dell’industria a considerare il profitto e la crescita come unici parametri del successo. «Non si può giudicare un creativo con questi criteri», ha continuato. «Lo sviluppo di un brand non dovrebbe essere valutato basandosi sul pubblico, sul numero di negozi e sulle vendite. Non penso sia saggio. A volte vedo collezioni veramente misere, ma che vengono elogiate perché producono risultati».

Christian Dior Haute-Couture Autunno/Inverno 2014-2015 by Raf Simons

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Christian Dior Haute-Couture Autunno/Inverno 2014-2015 by Raf Simons
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Come sono cambiate le priorità dell’industria della moda durante la carriera di Simons?

Saggio o no, è impossibile ignorare quanto sia cresciuto l’interesse per la moda negli ultimi trent’anni. Con un pubblico più esteso ed eterogeneo che mai, e di conseguenza una posta più alta in gioco, la pressione sugli stilisti per soddisfare tutti i palati è fortissima.

Anche il comportamento dei consumatori è cambiato. Dove una volta «c’erano quelli che seguivano Gaultier, quelli che seguivano Martin o Ann Demeulemeester», come ricorda Simons dai suoi esordi a Parigi, la dedizione a un unico brand è sempre più rara nella moda di oggi. E i grandi marchi hanno scelto di andare sul sicuro sfornando un flusso costante di prodotti commercializzabili che accontentino tutti piuttosto che lasciare piena libertà creativa ai loro direttori artistici.

Anche Nicolas Ghesquière, in un’ormai famigerata intervista del 2012 con la rivista System, aveva criticato questa nuova maniera di fare moda, parlando dei suoi 15 anni da direttore creativo di Balenciaga, marchio del gruppo Kering. «Tutto diventava un asset per il brand, un tentativo di creare un prodotto sempre più vendibile», disse. «Cominciai a sentirmi come se mi stessero prosciugando, come se volessero rubarmi l’identità cercando di uniformare tutto».

Balenciaga Primavera/Estate 2013 by Nicolas Ghesquière

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Balenciaga Primavera/Estate 2013 by Nicolas Ghesquière
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Si unisce al coro Stefano Pilati, ex direttore creativo di Yves Saint Laurent e di Ermenegildo Zegna, che in una recente story su Instagram ha risposto a un fan che invocava il suo ritorno da Saint Laurent con un semplice: «Grazie, ma no, grazie. Preferisco la libertà al prestigio».

Come hanno risposto gli stilisti new-gen a un’industria della moda sempre più uniformata?

Mentre montano le testimonianze degli stilisti della vecchia guardia, una nuova generazione di designer appare sempre più dissuasa dall’approccio delle grandi maison incentrato sulla produttività. Negli ultimi anni c’è stato un aumento di giovani marchi indipendenti che scelgono di dare la precedenza alla libertà creativa rispetto all’inseguimento del profitto e della crescita continua; ma questo non significa che rinuncino a questi aspetti.

Simon Porte Jacquemus è un caso esemplare. Festeggiando il decimo anniversario del suo marchio quest’anno, ha detto a WWD che le previsioni di vendita del 2019 superavano i 20 milioni di euro. E nonostante le voci di proposte golose da parte di grandi maison, pare abbia regolarmente rifiutato, preferendo fare le cose a modo suo. «Dico sempre che "non mi serve una grande casa, la mia grande casa è Jacquemus". E continuo a ripeterlo a voce sempre più alta», ha detto a Vogue alla vigilia della sua sfilata Primavera Estate 2020, tenutasi in un campo di lavanda a un’ora dal suo paese natale in Provenza. «La mia missione è essere il volto di una generazione, che non vuol dire solo pensare al futuro del pianeta, ma anche puntare alla felicità che non è data dall’avere tanti soldi».

Jacquemus Primavera/Estate 2020

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Jacquemus Primavera/Estate 2020
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Questo impegno a un’interpretazione più olistica del successo è stato ripreso in un post di Instagram di Ottobre in cui Jacquemus ha parlato della sua assenza dal calendario della Fashion Week parigina. «Ci facciamo tutti un sacco di domande, ancora di più nel momento particolare in cui viviamo. So che persona voglio essere e che azienda voglio guidare», ha scritto il designer. «Je ne veux pas grossir, mais grandir», ha concluso, che significa «Non voglio ingrandirmi, voglio diventare grande.».

Cosa faranno quindi i designer?

La saga di Simons è per molti versi simile a una parabola, un racconto in prima persona di dilemmi della moda che restano insoluti. Secondo lui le priorità delle multinazionali della moda devono cambiare, mirando al ritorno a un design più istintivo, che susciti emozioni. «Il sistema della moda è in continuo mutamento», ha osservato. A suo parere molti brand adesso sono troppo «legati a una visione che privilegia esclusivamente il commercio e i soldi». Il risultato, dice, è «l’appiattimento del business. Io sono sempre alla ricerca di emozioni. Con il mio marchio voglio comunicare emozioni».

Conclude esprimendo un modo di sentire che senza dubbio ha un forte impatto su tutti i designer. «Volevo solo fare vestiti», dice con semplicità. Un chiaro reminder anche all’industria della moda, affinché non perda di vista il valore della creatività.



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