Casa Vogue. La stazione di Roma Termini
Tra le diverse querelles con illustri e polemiche prese (e difese) di posizione che, se mai ne avessimo davvero bisogno, animano il dibattito in questi giorni ce n’è stata anche una che riguarda le ferrovie. L’avrete letta. A dirla fino in fondo, il tema del trasporto passeggeri su rotaia, delle fatiche del pendolarismo, della inadeguatezza delle strutture si parla da anni. La situazione attuale sta solo rimarcando quanto siano necessari ammodernamenti e migliorie all’efficienza. Insomma, inutile aggiungere altro, si finirebbe fuori tema. Tutto questo ci ha fatto comunque ripensare a una curiosa e poco nota vicenda tra ferrovia e architettura che Casa Vogue raccontò nel dicembre 2004. È una storia un po’ tribolata di 80 anni fa, come erano quegli anni, colorata in bianco & nero, quasi facesse il pari con il grigio del brutto tempo di questi giorni, e riguarda la costruzione della Stazione Termini, a Roma. Piccola parentesi: in questo campo, non è l’unico caso di vicenda complessa e dai risvolti persino difficili da credere, per questo attualissimi. Basta pensare alle complesse vicende della Stazione Centrale di Milano e di quella di S. Maria Novella a Firenze. Un’ultima considerazione. 16 anni dopo, il titolo che fu creato allora “An Unrealized Dream” (un sogno irrealizzato) suona molto poetico quanto, siamo onesti, piuttosto fantasioso. Insomma, funzionava attirando l’occhio con tutte quelle gigantesche colonne. Forse, oggi funziona di più “archeologia temporanea”.
(Paolo Lavezzari)
An Unrealized Dream
«Prima di arrivare alle Acque Albule, chi veniva a Roma vedeva sulla sinistra alcuni elementi giganteschi e assurdi di colonnato, due blocchi sormontati da tipi diversi di un alto frontone e uniti insieme, sul rovescio, da un’armatura di legno. Quelle colonne, nate in un prato, erano troppo provvisorie per essere vere; d’altra parte erano troppo poche e troppo isolate per costituire una scenografia di film. Ogni tanto comparivano dei signori e sostavano a contemplarle dal prato e a discutere tra loro» (Silvio Negro, in “Corriere della Sera”, 27-28 giugno 1941). L’inattesa visione d’un frammento di pronao colossale in mezzo alla campagna, sulla strada tra Roma e Tivoli, segna uno degli episodi più controversi dell’architettura italiana tra le due guerre. Non è l’unica bizzarria che accompagna la fine dell’architettura ufficiale del ventennio. Altre imprese vengono interrotte con il secondo conflitto e ultimate solo anni dopo, in un clima culturale e politico radicalmente cambiato (vedi l’Eur a Roma e l’Arengario a Milano).
Ma la vicenda del modello per la prevista facciata monumentale della stazione Termini, un modello in legno rivestito di gesso, alto quasi trenta metri, realizzato in scala reale nell’autunno 1940, incarna alla perfezione il clima da “caduta degli dei” che avvolge il concludersi dell’epoca fascista. Non sono le bombe a distruggere l’enorme e fragile facciata: crolla da sola, abbattuta nel 1941 da una tromba d’aria («poco dopo il giorno dell’Ascensione», scrive in una nota il progettista Angiolo Mazzoni), quasi presagio di una catastrofe più ampia e totale. Tra le iniziative avviate negli anni Trenta per rimodellare il volto architettonico e urbanistico di Roma, dalla città universitaria al citato quartiere Eur, assume importanza strategica la riorganizzazione del comparto ferroviario.
I lavori per la sostituzione della vecchia stazione Termini (edificio ottocentesco di Salvatore Bianchi) partono nel 1937 su progetto dello specialista Angiolo Mazzoni. Architetto ufficiale delle ferrovie e delle poste italiane, è autore tra gli anni Venti e Trenta di alcune decine di edifici dal Brennero alla Sicilia. Una carriera invidiabile che gli procura l’astio dei colleghi e si conclude di colpo nel 1945, quando Mazzoni, “epurato”, perde il lavoro e prosegue la propria esistenza nel lamento per i torti subiti (nel 1948 si trasferisce in Colombia, torna in Italia nel 1963, muore a Roma nel 1979). Ambizioso, veloce nel programmare e gestire cantieri complessi, generoso con gli artisti – coinvolti con incarichi decorativi a decine, da Depero a Sironi, Martinuzzi, Cadorin, Tato, Fillìa, Prampolini – Mazzoni disegna per la nuova stazione Termini una grandiosa struttura che si sviluppa sui tre fronti: piazza dei Cinquecento, via Marsala e via Giolitti (la lunghezza perimetrale è di due chilometri e mezzo).
Nei primi anni Quaranta la stazione è più o meno realizzata e corrisponde a quella che è la sua immagine odierna, facciata principale a parte. Prospetti in travertino toscano di San Quirico d’Orcia cadenzati dalla teoria di archi sovrapposti e conclusi dalle metafisiche torri dei serbatoi d’acqua, interni (poi modificati) dagli spazi solenni rivestiti in cotto e in preziose pietre ornamentali italiane: diorite nera di Anzola, porfido violaceo di Predazzo, giallo Mori... I problemi sorgono per via della facciata. Da una prima versione “moderna” approvata nel 1937 (Mazzoni sa gestire il linguaggio moderno, con proprietà e competenza) si passa via via a soluzioni monumentali fino a quella definitiva, vicina al gelido neoclassicismo di Speer.
Non appartiene alla natura degli edifici di Mazzoni l’intento di schiacciare il visitatore ingigantendo le dimensioni, ma qui l’effetto ottenuto è proprio questo. Un «immenso atrio carrozzabile formato da cinquantadue colonne di travertino alte diciannove metri (più la trabeazione di otto metri) e con due metri e venticinque di diametro disposte in doppio ordine su un rettangolo frontale di trenta metri di profondità e di duecentocinquanta di lunghezza: questo portico sarà lungo quasi il doppio del colonnato di San Pietro e le sue colonne supereranno quelle del Bernini di quattro metri e trenta» (“Corriere della Sera”, cit.).
Nelle sue note Mazzoni parla di forti spinte esercitate per enfatizzare in senso “romano” il disegno della fronte. La soluzione definitiva viene presentata con un plastico inviato all’Esposizione Universale di New York nel 1939 ed esaminata poi nei singoli dettagli nel modello a scala reale alle Acque Albule. È qui che il travertino rosato proveniente dalla Val d’Orcia era ridotto in lastre e inviato poi a Roma per il rivestimento della stazione. Il 22 maggio 1941, giorno dell’Ascensione, passano in rassegna alle Acque Albule gli esperti chiamati a decidere la combinazione degli alzati. Tra loro, uomini potenti come i ministri Bottai e Host Venturi, il critico Ugo Ojetti, l’architetto Marcello Piacentini. La dimensione surreale in cui si svolgono le verifiche è evocata dalle fotografie dello studio Anderson, rimaste l’unica testimonianza visiva: i tralicci dell’impalcatura marcano la caducità dell’allestimento, le posture degli operai alla base delle colonne ricordano i pastori e i contadini ritratti nella campagna romana dai pittori del Grand tour.
Rallentata dall’avanzare della guerra, la fabbrica della stazione si blocca nell’estate 1943. Dopo il 1945 è ormai fuori luogo riprendere in un sito così rappresentativo la memoria della classicità del regime. Nel 1947 viene indetto per la facciata un concorso nazionale nel quale si chiede di differenziarsi dal passato e dare espressione alla nuova realtà democratica degli italiani. Vincono ex aequo due progetti, poi associati tra loro, di Montuori con Leo Calini, e di Castellazzi, Fadigati, Vitellozzi con Pintonello. Nel 1950 la facciata è pronta ed è subito un’icona della nuova architettura italiana (tanto che la vulgata assegna l’opera al più famoso Pier Luigi Nervi, che però non c’entra). Mazzoni commenterà signorilmente che «è un’opera veramente bella».
from Articles https://ift.tt/2HF5D6f
Comments
Post a Comment