Cate Blanchett torna in Stateless, nuova serie Netflix
Parla sempre poco e sorride ancora meno. Di solito Cate Blanchett lascia che sia il suo sguardo a spiegare stati d’animo ed emozioni. Ma non stavolta: la cinquantenne Premio Oscar è volata al 70° Festival di Berlino con uno scopo ben preciso, alzare la voce e farsi ascoltare. Non che ne abbia bisogno, sia chiaro: qualsiasi cosa esca dalla sua bocca ha l’attenzione di tutto il mondo e i riflettori puntati addosso. In questo caso però quello che ha da dire farà storcere il naso a molti perché Stateless, il suo nuovo progetto presto su Netflix, racconta una realtà scomoda, i centri di detenzione per immigrati in Australia. Presentato in anteprima mondiale nella sezione Berlinale Series, segue la storia di un gruppo di protagonisti dentro e fuori “le sbarre”, con drammi personali e crisi di interi popoli. E tutto è nato dall’esperienza dell’attrice, inviata per le Nazioni Unite nei campi profughi di mezzo mondo. Davanti a tanta sofferenza ha deciso di non poter più stare a guardare e così assieme al marito sceneggiatore Andrew Upton ha creato e prodotto questo gioiellino a puntate in cui interpreta anche un cameo.
Con che occhi guarda le nuove generazioni?
L’energia delle nuove generazioni mi ridona speranza. Contro i regimi corrotti dal potere, il potere della pace è potentissimo. Vedere giovani attiviste come Nardjes Asli che in Algeria scende in piazza per difendere la libertà mi fa sentire parte di questa protesta, parte di qualcosa di più grande. Il mondo purtroppo è popolato da regimi totalitari e mi chiedo: esiste ancora una vera democrazia? Sta a noi non perdere la fede nell’umanità.
Come si recupera la propria umanità in circostanze disperate?
Guardandole da tutte le prospettive, non solo dalla nostra. Ed è questo che oltre cinque anni fa mi ha portato alla decisione di creare Stateless, una serie che non mostra solo il punto di vista di un rifugiato ma anche di una guardia ed estende le loro condizioni a qualcosa di universale, in cui tutti ci si può identificare.
Vuol dire che persino lei, in qualche modo, si è sentita isolata o outsider?
Certo, non lo siamo tutti? Io per esempio ho sempre la sindrome dell’impostore nella vita. E mi sento outsider in molte situazioni, ma alcune volte ci serve la giusta prospettiva per capire cosa ci succede e l’arte resta uno strumento potente e quindi pericoloso per cambiare le cose.
In che senso?
Gli artisti vengono accusati di essere troppo liberali, come se in questo ci fosse qualcosa di male, ma invece mostriamo appunto questo, una prospettiva che ci permette di essere al tempo stesso dentro e fuori la scena.
Qual è la sua personale esperienza con i rifugiati?
Ho visitato i campi in Giordania e Libano e ho visto speranza in quei bambini anche quando sembrava non avessero nessun motivo al mondo per provarla. Negli occhi di quei rifugiati c’era molta dignità nonostante le condizioni disumane e questo mi ha spinto a credere che abbiamo ancora speranza. E ho deciso di fare la mia parte, sono stata ispirata all’azione perché le loro storie vanno raccontate. Non possiamo stare seduti ad aspettare che qualcosa cambi solo a parole.
Serve un’educazione all’accoglienza?
Certamente, soprattutto da parte di nazioni come l’Australia che hanno una tradizione di apertura: noi siamo una colonia che ha messo insieme popoli diversi e questo ci ha reso migliori. Siamo cresciuti insieme e ci siamo integrati a vicenda.
E oggi?
Ci additiamo a vicenda, spaventati dal diverso e lo bolliamo come “cattivo” ma invece siamo tutti umani, più vicini di quanto non crediamo. Ho letto un articolo del Guardian che parlava non solo del trauma di gente criminalizzata mentre cerca asilo politico, ma delle guardie che devono mettere in atto leggi insensate.
A cosa si riferisce quindi il titolo, Stateless?
A tutti coloro che non hanno una cittadinanza e quindi sono privi di passaporto e possibilità di spostarsi, che non possono permettersi un’istruzione o l’assicurazione sanitaria. Sono gli invisibili di oggi e con l’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati proprio nel 2014 ho aderito alla campagna #Ibelong che si proponeva di abolire l’apolidia entro dieci anni. Da quel progetto è nata l’idea di raccontare queste storie con una serie e per farlo ho scelto quattro protagonisti molto diversi tra loro, che la vita porta nel bel mezzo del deserto australiano alle prese con il problema dell’identità.
L’arte può innescare il cambiamento?
Sì, il potere di un’immagine va oltre la nostra comprensione e aiuta chi cerca risposte per rispondere a queste atrocità. Sono sicura che queste storie di detenzione accenderanno i riflettori sui diritti umani.
Leggete anche la nostra intervista a Elio Germano
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