Antologia di Casa Vogue. Una casa-scultura in Engadina
Di nuovo sulle Alpi per questa quarta tappa dell’antologia di Casa Vogue e la montagna. È una storia carica di neve, tanta e bella ghiacciata – mica quella inesistente se non fradicia degli anni scorsi – esattamente come la godono gli sciatori di questa strana stagione invernale. Del resto, di stranezze ne vediamo e ancor più viviamo ormai ogni momento. Siamo allora in Engadina (con Casa Vogue ci andammo nel dicembre 2004 grazie alle magnifiche foto di Filippo Simonetti) e ritroviamo un artista quanto meno singolare, Not Vital. Di lui, forse qualcuno ricorderà, abbiamo raccontato a inizio pandemia l’isola-dimora-caverna-scultura che ha realizzato su un lago cileno. Legatissimo alla sua terra e alle bellissime montagne, l’artista recupera spesso le tipiche dimore locali e, nel pieno rispetto delle loro forme e della tradizione, le reinterpreta rendendo l’idea di casa-abitazione un qualcosa di più profondo che diventa espressione artistica. Il che non è un’idea del tutto peregrina. Anzi, è un buon suggerimento per provare a riconsiderare i nostri spazi abitativi e guardarli non più solo come geometrici contenitori di cose, alloggi, ma espressione e specchio in continuo divenire e mutare delle nostre esistenze fisiche ed emozionali. (Paolo Lavezzari)
«La luce è drammatica, bisogna vederla per capire; questa luce calda che esce dalle bocche aperte delle finestre, nel freddo intenso che c’è di fuori. Molto Dottor Zivago». Caldo e freddo, stanze nere di fuliggine e stanze di ghiaccio, amplessi di estremi fisici ma anche architettonici, dentro e fuori le pareti, tra pietra, legno morbido, spigoli acuti di acciaio, vetro di Murano: da qualunque parte si guardi, la casa di Not Vital a Tschlin, estremo orientale dell’Engadina, è “radicale”. «Radicale»: ripete, con un punta di orgoglio, l’artista svizzero dallo spirito nomade e le mani innamorate della sostanza di cui sono fatti i sogni e la natura. Ma gli piacciono tutte, le definizioni della sua casa: anche quella del gallerista Gian Enzo Sperone: «Questa non è una casa, è una scultura»; o quella iniziale, «non la vorrei neanche regalata», del fratello Duri, che poi ha finito per edificarla tutta, dall’alfa all’omega; e persino il rifiuto dell’amico per cui originariamente l’aveva scovata, in quel «paese non bello, distrutto dal fuoco alla metà del secolo scorso e ricostruito male, con un’unica strada per salire e scendere, sicché non si può passarci per caso, bisogna proprio volerci andare». L’amico poi non l’ha voluta: allora l’ha presa Not.
«Posso anche comprenderlo, non era facile vedere oltre il rudere. All’apparenza non era che una tipica casa engadinese della metà dell’Ottocento, appartenuta a una famiglia umile, di contadini. Era rimasta come l’avevano lasciata loro negli anni Sessanta». Appeal inesistente anche per gli indigeni, che alla conservazione dell’architettura tradizionale preferiscono il comfort, l’isolamento termico. Sfida imperdibile per Not. «Volevo provare che si può lasciare intatta la struttura originale della casa e viverci». Anzi, viverci proprio in virtù di quella struttura originale, che permette al vento dell’est, carico di neve, di scontrarsi col calore in escursione dalle pance delle stanze riscaldate. E alle montagne di imporsi in tutta la loro maestà. La vista è stato uno degli atout decisivi: lui, che è nato e risiede a Sent, una manciata di chilometri più in là, ci viene per passeggiare o per leggere. E guardare. «Dal mio bagno vedo l’Italia e l’Austria». Il Piz Lat, l’ultima montagna prima dell’incontro dei due paesi con la Svizzera, è il perno concettuale e visuale del fienile, grande antro di pietra affiancato alla casa: lì è sospesa una stanza-cannocchiale a sezione degradante, ricavata da un tronco intero lungo tredici metri. All’estremità meridionale c’è un osservatorio, con una finestra puntata sul Piz. «Originariamente era uno di quei ponti da cui i contadini buttavano giù il fieno: a convertirlo mi ha aiutato l’architetto Hans-Jörg Ruch, che ha realizzato il modellino».
Del fratello Duri è invece la porta di vetro ad apertura automatizzata che sigilla l’estremità del condotto, intrappolandovi il calore. Tutt’intorno d’inverno mulina la neve, filtrata dalle fessure nelle pareti del fienile; i fiocchi si posano sui modellini in gesso di altre montagne, collocati sotto al ponte. Anche in passato questi erano i quartieri del freddo: il fieno raccolto veniva riscaldato per diffusione dal livello sottostante, dove erano le stalle con gli animali e la grande stanza centrale con il deposito di letame; al posto del letame, Not e Duri hanno insediato l’acqua. «Mentre lavoravamo alla casa, l’estate scorsa, è scoppiato un caldo senza precedenti: così ci è venuta l’idea». Quando il termometro crolla, l’acqua si ghiaccia e le pareti di quella stanza si accendono di luce boreale.
In un altro locale dell’ex stalla ricompare la neve, in versione “man made”: è l’allestimento “Snowballs” in vetro di Murano, noccioli opachi in sfere di vetro limpido (di recente l’ha sostituito “Camel”, una serie di sfere d’argento in cui l’artista e mastri artigiani nigeriani hanno incluso le parti di un cammello disidratato). Mentre, in un terzo spazio adiacente, Not Vital ha ambientato una lunga installazione di pietre, opera di Richard Long.
Il fienile di pietra e gelo comunica con il corpo isovolumico della casa, dove invece domina il legno e sospira il tepore (non tutti i locali sono riscaldati). «Ho usato il gembro, un legno morbido che conserva il suo profumo negli anni». La pianta è quella classica engadinese, con “stuva” (stufa), cucina e “chamineda” (dispensa) a piano terra e l’area notte al secondo piano. «Tempo fa mi lamentavo con un’anziana del posto, “Ma questo paese è tutto in salita!”. Lei ha risposto “Di piatto c’è solo la stuva”». Gli engadinesi prendono la stuva molto seriamente: tradizionalmente era l’unica stanza riscaldata della casa, comunicante con la camera padronale tramite una botola nel soffitto, da aprire prima di coricarsi. Not stravede per la cucina, “chadafö”. «Se ho scelto questa casa è anche per la “stanza del fuoco”: ha pareti completamente annerite dal focolare aperto che vi ha bruciato per anni». Pareti così vanno domate e di nuovo la soluzione è nel contrasto esagerato – il contrappasso dell’acciaio – che diventa armonia, pur con un tratto quasi kubrickiano. «Nella casa progettata dall’architetto Ruch per un amico ho visto una cucina che mi piaceva molto: peccava solo nello spigolo, che era smussato».
Not cercava l’angolo acuto: lo chiede a Duri, che lo fa realizzare in Austria; forse nemmeno glielo chiede: i due fratelli lavorano al risparmio del verbo. «È stata una collaborazione magnifica: non è la prima volta che siamo insieme su un progetto, ormai ci si capisce anche senza parlare». Anche in bagno trionfa un modulo di acciaio composto, stoicismo della materia che lascia spazio alla mente per le cose più belle; come i viaggi, veri o immaginari. Questi ultimi sono scritti sui muri, nelle righe amaranto, gialle e celesti di una delle camere da letto del piano di sopra.
«Per le famiglie povere, dormire in una stanza così equivaleva ad andare in villeggiatura al Sud: a me piace perché rappresenta un elemento eccentrico e per quelle righe, che vorrei riprodotte in un pigiama». I viaggi veri sono nei tappeti georgiani e iraniani sparsi qua e là, e nei calcagni di Not, che hanno battuto il mondo in cerca di mondo. Inevitabile finire parlando delle altre residenze. C’è il vano gigante spalancato su Broadway e il Village, dove l’abbiamo intervistato e dove non finisce mai di muoversi, per rispondere al telefono, rifornirsi di mandorle, spostare l’ossigeno dell’aria. C’è la domus di Lucca. C’è Sent, al centro di un’immaginaria pista del cuore: da una parte Tschlin, in direzione opposta il nuovo progetto, «un palazzo nobiliare a sei piani, con stemmi araldici ovunque; il paese è uno dei più belli dell’Engadina, mai distrutto dal fuoco, con case del 1620». Poi c’è l’Africa. Ha un’abitazione ad Agadez, con un perimetro di corna di vacca, «perché sono l’unica parte dell’animale che gli indigeni non utilizzano». A pochi passi ha impiantato una scuola, dove abbecedari e stomaci affamati han di che pascersi, a pochi chilometri un altro cantiere: «Quando hai gente che lavora per te, non puoi far mancare l’attività; costruisco una torre di stanze cubiche, con una fuga di scale esterne affacciate a ovest, che salgono sempre più su». Così può sedere in alto a guardare il tramonto. E pensare, forse, a com’è diverso e in fondo uguale quello della sua valle.
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