Parole da salvare
“Benvenuto” di Trudie Styler
Benvenuto è una delle parole più importanti e versatili a nostra disposizione, una parola che ci collega l’uno all’altro in uno spirito di apertura e generosità. In inglese si usa per ringraziare: “You’re welcome” (sei benvenuto, in italiano) è quasi una risposta automatica a qualsiasi espressione di gratitudine o apprezzamento. Ma è anche un’ottima livella tra chi riceve e chi dà. Riceviamo un regalo, un favore, una cortesia, e se siamo persone educate lo riconosciamo con un “thank you”; in cambio la gentile risposta è “you’re welcome”. Così sappiamo che il regalo, il favore o la cortesia sono stati dati liberamente e con gioia, non c’è risenti- mento, nessun debito in sospeso. Noto spesso queste sottigliezze in Toscana, dove Sting e io abbiamo una casa. Per ogni “grazie” si riceve in cambio un “prego”, un “benvenuto”, nella delicata danza dell’etichetta fiorentina. A casa nostra siamo ospiti appassionati, la nostra famiglia, gli amici e le nuove conoscenze sono sempre i benvenuti, ci piace sedere insieme a tavola a spartirci il pane e un bicchiere di vino. Ogni estate trascorriamo qualche settimana in Toscana e per tutto il tempo della nostra permanenza ospitiamo un flusso costante di visitatori che vanno e vengono. Fin da quando ero più giovane, ai primi passi verso una vita indipendente, intrattenere gli amici è sempre stato un elemento importante; trascorrevo molto tempo con attori, artisti e musicisti, eravamo un bel gruppo di gente alla mano e accomodante, ogni scusa era buona per festeggiare! Quindi accogliere le persone in casa nostra, al nostro tavolo e nel nostro cuore, per noi ha un ruolo centrale. Connettersi con amici e familiari è la chiave per la felicità umana, far sentire le persone benvenute è un’abilità fondamentale per crearsi una vita appagante e serena. E penso che sia importante estendere ulteriormente questo benvenuto, questa accoglienza, andando oltre la cerchia dei nostri cari, fino a raggiungere un livello globale. Oggi nel mondo ci sono grandi spostamenti di popolazioni: migranti economici, rifugiati politici, richiedenti asilo. Sono molte le definizioni per descrivere le persone che sono state costrette dalle circostanze o dalle persecuzioni a lasciare la propria casa e cercare rifugio altrove. Sempre più, vediamo che non sono i benvenuti. Vengono rinchiusi, separati dai genitori, dai figli, vengono disumanizzati. Troppo spesso non sono trattati con il rispetto che meritano, in quanto esseri umani, donne e uomini come noi. Dov’è il benvenuto, per loro? Credo che abbiamo il dovere di accogliere chi soffre, chi è stato privato dei diritti primari quali una casa, un focolare, la sicurezza. Aprendo le nostre porte, possiamo offrire un rifugio sicuro a chi fugge da persecuzione e morte. Con la giusta apertura mentale, possiamo dare delle opportunità ai futuri leader e ai coraggiosi cittadini del mondo. Perciò amo la parola benvenuto, perché tutti abbiamo bisogno di sentirci accolti.
Trudie Styler è un’attrice, produttrice, regista e filantropa inglese, nata nel Worcestershire nel 1954. Nel 1987 fonda assieme al marito Sting il Rainforest Foundation Fund che protegge le foreste pluviali e le loro popolazioni indigene. Ambasciatrice Unicef, sostiene innumerevoli cause ambientaliste. Ha 4 figli e assieme a Sting produce vino nella loro tenuta in Toscana.
“Curatore” di Aric Chen
Dal momento che gran parte del lavoro di un curatore consiste appunto nel preservare le cose, la scelta di curare come parola da salvare è forse un po’ scontata da parte mia. In quanto curatore io stesso, non l’ho scelta perché tema di venire un giorno rimpiazzato da algoritmi, crowdsourcing o intelligenza artificiale, anche se sono ben consapevole di questa possibilità. Né perché la parola in sé abbia bisogno di essere salvata, dal momento che al giorno d’oggi ogni social media feed, menu delle birre o evento di un negozio è “a cura di”, ed è quindi davvero difficile che la parola corra il rischio di scomparire. No, non ho affatto deciso di salvare la parola curare perché a rischio di estinzione, ma proprio perché è così versatile e aperta, oltreché utile. Dal mio punto di vista, curare fondamentalmente significa fare lo sforzo di acquisire una conoscenza approfondita di una cosa, di una persona o di quel che si vuole, affiancandovi una capacità di comprensione allargata, che renda capaci di tracciare connessioni rivelatrici, se non addirittura inattese.Significa inoltre essere consapevoli delle decisioni che si prendono, e avere la capacità di espandere il modo in cui noi stessi, e gli altri, vediamo e pensiamo. La curatela, nella sua espressione migliore, apre gli occhi e la mente. Quando è usata con coscienza, ovvero in modo né pretenzioso né cinico, quella della curatela è una pratica fatta per essere condivisa. Aprite pure le dighe! L’etimologia stessa della parola già allude alla sua promiscuità. Deriva dal latino curare, prendersi cura di, e nell’antica Roma un curatore era un funzionario di alto livello che fungeva da custode delle opere pubbliche dell’impero. In Europa, in epoca medievale, il curatus, o curato, era il prete della parrocchia, colui che si prendeva cura del regno spirituale. Dal mantenimento delle fognature alla salvezza delle anime, sembra proprio che non ci siano limiti per quello che un curatore può fare. In senso più stretto, nel sistema britannico molti curatori di museo sono ancora chiamati keepers, simile al francese conservateur o conservatrice, parola che ci ricorda come la curatela un tempo implicasse principalmente l’amministrazione delle collezioni. In Cina, invece, vengo considerato un che zhan ren, un organizzatore di mostre. Avendo lavorato a svariate mostre e collezioni museali, design weeks, fiere di design e biennali, ciascuna con le proprie esigenze, e ciascuna che richiedeva un approccio specifico, posso dire che si tratta di due facce della stessa medaglia. La cosa certa è che curare richiede anche rigore. E in un’epoca in cui giochiamo un po’ troppo velocemente e in modo un po’ troppo disinvolto con decisamente troppe cose, politica e fatti di attualità compresi, diventa necessario tracciare dei parametri. Dopo tutto, curare significa anche garantire determinati standards. Chiunque può, e dovrebbe, essere un curatore, e pressoché qualsiasi cosa può venire curata. Tuttavia ci sono diverse forme di curatela, e bisognerebbe essere chiari e onesti rispetto alle motivazioni che vi sono sottintese, siano esse culturali, accademiche o commerciali. Forse in futuro sarà sempre più necessario... curare attentamente cosa intendiamo dire, quando diciamo “a cura di”.
Aric Chen ha 44 anni ed è un curatore indipendente basato a Shanghai. Attualmente è direttore e curatore della fiera Design Miami e Design Miami Basel, e curator at large di M+, il nuovo museo di cultura visiva in corso di costruzione a Hong Kong.
“Famiglia” di Stefania Auci
Qualche tempo fa, mio figlio mi ha detto che la nostra è una delle poche famiglie tradizionali della sua classe. La cosa mi ha fatto riflettere. Quanto è complicato oggi, essere famiglia? Quanta voglia abbiamo di metterci in gioco, di rinunciare a una parte della nostra sovranità affettiva e personale per creare qualcosa di nuovo? Io sono nata e vissuta in una famigghia del Sud, insomma, dove nessuno può considerarsi al sicuro dall’invadenza di chi ti sta accanto, in cui l’affetto passa attraverso il cibo, le raccomandazioni su come ti comporti, i continui e soffocanti “sta’ attenta”. A dirla tutta, la mia famiglia, all’inizio, era più un gineceo, poiché gli unici maschi erano mio padre e il gatto. Un posto fisico e del cuore parecchio incasinato, con una tipica madre onnipresente e ansiosa e due sorelle maggiori che mi hanno fatto da apripista. I maschi sono arrivati con la famiglia di mio marito: un discreto plotone di zii e cugini, circa una sessantina. Ma l’essenza non è cambiata: la famiglia per me ha sempre avuto i colori e i rumori di un mondo in cui custodisci il passato e aspetti il futuro, in cui la vita quotidiana non è mai del tutto individuale e in cui matrimoni, nascite, comunioni e funerali sono un modo per ricordarsi che non sei mai solo, anche se vorresti. Siamo andati avanti e continuiamo a farlo attraverso le storie condivise, le memorie, le fotografie, gli odori degli armadi e il profumo dei cibi. E questo universo affettivo continua con gli amici e, dato che per una persona del Sud non esiste nulla di più importante del legame di sangue, se hai una persona cui vuoi bene non dici che è “un amico fraterno”, ma che è “mio fratello”. Non importa che non sia legato a te per jus sanguinis: tu gli riconosci quest’appartenenza. Io, poi, attribuisco un preciso posto in famiglia anche ai miei gatti, tanto per aumentare la confusione e l’amore. Mi rendo conto che questa mia visione di famiglia può sembrare antiquata. Per me però non è così. Ricordarci da dove veniamo, delle nostre radici, di chi – nel bene o nel male – ci ha reso ciò che siamo ci dà consapevolezza. Se riusciamo anche a fare pace con certi aspetti del nostro passato, ci permette anche di essere liberi. Perché la famiglia è un posto che noi abbiamo costruito, dove, da bambini, ci hanno insegnato che è importante voler bene all’altro, che non esiste solo il mio e il tuo, ma anche il nostro. Che è bello condividere, anche soltanto chiacchiere, pettegolezzi, segreti, e pazienza se nel giro di un’ora non sono più tali. Perché è lì che abbiamo imparato a ridere e a farlo insieme con gli altri. Dopo un litigio – anche furioso – si finisce sempre per tornare: è vero, certe parole ti scavano dentro solchi che non se ne andranno più, eppure si va avanti, perché le cose che uniscono pesano sempre di più di quelle che dividono. E, anche quando il dolore è insanabile, ci si stringe tutti insieme per sentire meno il vuoto lasciato da qualcuno. Una ti mette davanti un piatto, obbligandoti a mangiare, un altro ancora ti accoglie con un abbraccio. Non c’è bisogno di chiedere null’altro. So benissimo che “essere famiglia” è sempre stato complicato. Oggi, forse, ancora di più. Nella mia esperienza di insegnante, entro in contatto con famiglie disfunzionali, anaffettive, “difficili”. Ma un conto è affrontare queste realtà e un altro è cercare di polverizzare l’istituzione della famiglia, come se non avesse più ragione di esistere. E invece ce l’ha eccome, e io sono ferocemente convinta che oggi ci sia un gran bisogno di avere un posto del cuore in cui poter tornare. Non ci credete? Se venite a trovarmi, vi convinciamo del contrario. Io, mio marito, le mie nipoti, le mie due sorelle, cugini e cugine, tutti i miei zii e zie. Naturalmente davanti a un piatto di cuscùsu alla trapanisa.
Stefania Auci nasce a Trapani 44 anni fa, e scrive da quando aveva 12 anni. Il suo libro “I leoni di Sicilia” (Nord), divenuto in breve tempo un caso editoriale internazionale, racconta la saga di una delle famiglie più influenti della Sicilia, i Florio.
"Ingenuiti” di Francesco Bonami
C’è una parola che prima di essere salvata va inventata e inserita nel dizionario italiano – oppure va cambiato il significato di quella che già c’è. La parola è inglese: ingenuity. Se chiediamo così su due piedi cosa significa, la maggior parte della gente risponderà: «ingenuità». Invece no. Ingenuity significa avere la capacità di essere intelligente, inventivo, originale. Semplificando, vuol dire genialità. E la genialità non si può sviluppare se non la si mescola a una certa ingenuità, una qualità che ci fa fare cose magari in apparenza sciocche o banali – ma che invece sono eccezionali. In Italia la genialità ingenua è quasi sempre vista con sospetto e viene spesso ridicolizzata. Pensate a uno Steve Jobs che, invece di crescere in America, fosse stato – che so – di Firenze. Ecco, un giorno il nostro giovane fiorentino va da un gruppo di amici, racconta che ha inventato un computer e che lo vuole chiamare Mela. Gli amici non lo lasciano nemmeno finire e già lo prendono in giro. Poi iniziano a dargli consigli del tipo: chiamalo Leonardo oppure Vico (Giambattista, il filosofo), magari Pico (della Mirandola). Morale: lui sceglie di chiamarlo Pico e dello Steve Jobs fiorentino e del suo computer non se ne sentirà più parlare. Eppure gli italiani hanno avuto ingenuiti, con la “i”, a valanghe. Pensate a quando un signore decise di creare una sorta di motocicletta usando le ruote di un piccolo aereo, e poi la chiamò Vespa. Era il dopoguerra e forse essere geniali e ingenui aiutava a dimenticare il brutto che era passato. Poi, non so quando, l’ingenuiti è stata sostituita dalla furbizia, quindi dall’arroganza, e infine dall’arrivismo. Non siamo più così ingenui da sognare o immaginare, ma vogliamo essere più furbi degli altri. Le idee che ci vengono sono destinate a fare fessi i cretini. Si potrebbe metter giù una lista delle persone che, grazie alla loro ingenuiti, hanno cambiato l’Italia – uno su tutti Renzo Arbore: grazie a una sua geniale ingenuità ha creato programmi televisivi che oggi nessuno si sogna nemmeno. Chi è benedetto dall’ingenuiti è qualcuno che non pensa di saperne più degli altri ma, molto ingenuamente, vuole fare arrivare le proprie idee agli altri. È qualcuno che vuole migliorare la vita degli altri perché, se gli altri stanno meglio, sta sicuramente meglio anche lui. Certo non si può solo essere ingenui, bisogna anche avere delle buone idee – ma queste vengono se uno è in uno stato d’animo aperto, se uno non ha paura che gli amici gli ridano dietro. Ritrovare la nostra ingenuiti credo sia il segreto per ritrovare anche la strada persa in politica, nell’arte, nella vita. Il populismo è il contrario dell’ingenuiti, perché sfrutta l’ingenuità senza idee della maggioranza senza regalare genialità. Togliamole la “y” e mettiamoci la “i”, ma salviamo questa magnifica parola passepartout per il futuro.
Francesco Bonami è un curatore di fama internazionale e una firma del quotidiano “la Repubblica”. Su Instagram il suo “The Bonamist” è stato nominato «il migliore del mondo dell’arte» dal “ The Baer Faxt”. Per Feltrinelli ha appena pubblicato “Post”, una riflessione sull’arte e i social media. Vive fra New York e Milano.
“Libertà” di Angelina Jolie
Libertà. La mia parola è sicuramente libertà. Perché senza non siamo nulla. Non esistiamo. Non pensiamo. E il discorso vale soprattutto per noi donne. Non si riflette sul fatto, per esempio, che non abbiamo il diritto – la libertà appunto – di essere “soft”. Siamo abituate a combattere. Per i nostri diritti. Per la nostra sicurezza. Dobbiamo sempre dimostrare di essere forti, di sapere fare tutto: lavorare, crescere i figli... Ma nasciamo come creature delicate e gentili. E questa fragilità è uno spazio che non ci è concesso. Una donna libera non deve essere necessariamente aggressiva. Non deve mostrarsi per forza selvaggia o sexy. La libertà è anche gioia, felicità, delicatezza, femminilità. Forse se lo chiedessi ai miei figli – qual è la parola fondamentale – direbbero silly (sciocco, in italiano): loro mi vedono così. Tornando però ai valori fondamentali, a loro vorrei trasmettere l’importanza della gentilezza. Difficile parlare di gentilezza quando litigano. Ma cerco di rimanere ferma e farli ragionare. I miei bambini sono persone forti, con la mente aperta. Ma è essenziale essere gentili. E umili. Ricordarsi che siamo semplicemente degli esseri umani, che non saremo qui per sempre e che siamo solo un piccolo frame in un quadro molto più ampio.
Angelina Jolie è nata a Los Angeles nel 1975. Attrice, produttrice, regista e filantropa americana. Vincitrice di due Premi Oscar, è anche ambasciatrice dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati. Ha sei figli. Ha fondato la MJP Foundation che sostiene le comunità rurali cambogiane. È il volto del profumo Mon Guerlain di Guerlain.
“Neve” di Bill McKibben
Neve è una delle mie parole preferite. A volte comincio ad ascoltare le previsioni meteo a partire da settembre, nella speranza che qualche tempesta d’inizio stagione possa portarci una veloce spolverata di bianco. Amo la neve, forse perché sono una persona piuttosto impacciata e lenta, e non appena il suolo è ricoperto di neve, invece, qualsiasi attrito scompare. Per un’intera stagione, io che pratico lo sci di fondo, posso scivolare facilmente e con grazia, su e giù per il pendio, attraverso i boschi. Mi sembra una magia. Una magia che sembra svanire un po’ alla volta, come l’incantesimo di una fata che sta perdendo i propri poteri. In tutto il pianeta la durata media dell’inverno, infatti, ha cominciato a diminuire. Dove vivo io, nelle montagne del New England, le tempeste di neve si trasformano ormai troppo di frequente in temporali. Sulle Alpi, i ghiacciai stanno scomparendo rapidamente, al punto che in alcuni siti turistici vengono ricoperti con grandi teli cerati per cercare di rallentarne lo scioglimento. Sui monti dell’Himalaya, un terzo della neve e dei ghiacci, o forse di più, sarà scomparso da qui alla fine del secolo; gli scalatori segnalano già ora che è diventato più difficile e più pericoloso raggiungere la cima delle grandi montagne, perché la neve che si scioglie provoca la caduta di massi sulla loro testa. Il disgelo è in atto persino nei grandi depositi planetari di neve e di ghiaccio: sono stato sulle calotte di ghiaccio della penisola Antartica e ho potuto osservare come iceberg giganti andassero a schiantarsi nell’oceano, ho vagato sulle montagne di ghiaccio della Groenlandia solo per trovare fori di scarico, scongelati da poco, che risucchiavano acqua dalla superficie. C’è un solo e unico modo per salvaguardare questa magia, ed è quello di rallentare il crescente innalzamento della temperatura del pianeta. E questo significa interrompere la combustione di carbone, gas e olio, e sostituirli con l’energia del vento e del sole. Gli ingegneri hanno fatto il loro lavoro in modo eccellente, riuscendo ad abbattere il prezzo di un pannello solare del 90% negli ultimi dieci anni. Ma i politici invece hanno fallito nel loro, e dunque la transizione, ormai necessaria, procede troppo lentamente. Al ritmo attuale non raggiungeremo mai gli obiettivi prefissati dalle Nazioni Unite. Bisogna insistere con molta più forza, fare in modo che i governi nazionali si muovano con vero coraggio, e spingere i sistemi finanziari del pianeta a interrompere il finanziamento dei combustibili fossili. Ecco perché il 20 settembre, in tutto il mondo, moltissime persone parteciperanno a uno sciopero transgenerazionale per il clima, pensato per dare man forte a quei ragazzi che l’anno scorso hanno cominciato questa battaglia. Ci sono moltissime ragioni, di cruciale importanza, per farlo: già oggi la gente muore a causa della siccità, delle alluvioni, degli incendi, del rapido propagarsi di malattie, che si diffondono come mosche in posti nuovi. Le Nazioni Unite stimano che prima della fine del secolo potremmo avere fino a un miliardo di rifugiati climatici. Queste sono le principali ragioni per affrontare il cambiamento climatico. L’ingiustizia del surriscaldamento globale, ovvero il fatto che chi fa di meno per provocarlo ne soffre di più, dovrebbe spingerci ad agire. Ma c’è anche l’amore per lo splendido mondo in cui siamo nati. E dal momento che la neve è una delle sue meraviglie più straordinarie, vale la pena di lottare anche per questo!
Bill McKibben, giornalista e scrittore americano, è nato a Palo Alto nel 1960. Ha dedicato una dozzina di libri alla questione ambientalista e al surriscaldamento globale. Il suo“The End of Nature” (Anchor) del 1989 è il primo libro sul climate change. È stato definito dal “Boston Globe” «l’ambientalista più influente della nazione» e da “Time” «il miglior green journalist del mondo».
“Pazienza” di Kristina O’Neill
«Take it slow, and it’ll work itself out fine / All we need is just a little patience». Chi l’avrebbe mai detto che Axl Rose e i Guns N’ Roses avrebbero dato consigli degni di Oprah Winfrey? Concordo – arriva sempre qualcosa di buono per chi sa aspettare. Nel mondo insta-tutto in cui viviamo è più importante che mai prendersi del tempo. Siamo abituati a cliccare, comprare e ricevere immediatamente tutto ciò che vogliamo. Anch’io, credetemi, amo le consegne immediate di Net-a-Porter, Uber, Seamless e Amazon Prime Now. Ma nella vita come nel lavoro a volte è meglio fare un respiro profondo, prendersi una pausa e lasciare correre l’immaginazione. Non so quante volte al Wall Street Journal Magazine mi sono sentita dire “no” da persone con cui avrei sognato di lavorare. Come Oprah. Le ho scritto per la prima volta appena diventata direttore e non ho più smesso. Poi un giorno, cinque anni dopo, eccola in copertina con un’intervista a cuore aperto e un bellissimo e commovente servizio fotografico di Mario Sorrenti. Non ho ottenuto in regalo una macchina (in una puntata del suo show Oprah regalò un’auto a una spettatrice, ndt) ma un abbraccio sul set. E ho pianto. Quello che ho imparato è che quando credi fermamente in qualcosa e scegli di ingaggiarti in un progetto davvero significativo, iniziano a succederti cose meravigliose e imprevedibili. Prendiamo Giorgio Armani, Carolina Herrera e Tory Burch. Avevano tutti più di quarant’anni quando hanno lanciato i brand che hanno cambiato il mondo della moda. Karl Lagerfeld ne aveva quasi cinquanta quando ha iniziato a disegnare per Chanel. A ottantun anni David Hockney ha venduto un quadro all’asta battendo il record per l’opera di un artista vivente. Intanto la diciassettenne Billie Eilish, con il suo album al primo posto in classifica, sarà anche soltanto il successo del momento, ma vale la pena ricordare che ha cominciato a incidere canzoni con il fratello quando aveva tredici anni, e che il suo amore per la musica era iniziato ancor prima. La pazienza è un valore che cerco di instillare anche nei miei figli: Stella che ha dodici anni e Dex che ne ha tre. È importante sapere aspettare, non siate precipitosi. Non prendete decisioni affrettate, considerate tutti gli aspetti. Soppesate le vostre opzioni. L’istinto sa farsi sentire molto, molto più forte quando si è pazienti. E se mi date una tequila o due, mentre aspetto, potreste anche trovarmi al karaoke, a cantare a squarciagola Patience.
Kristina O’Neill è il direttore del “Wall Street Journal Magazine”. Cresciuta in Northern Virginia, ha lavorato come giornalista di moda per “Time Out”, “New York Magazine” e “Harper’s Bazaar”, di cui è stata anche executive editor. Vive a Brooklyn con suo marito e i figli Stella e Dex, di 12 e 3 anni.
“Speranza” di Jane Goodall
L’amore per le parole mi accompagna da sempre. Da bambina scrivevo racconti, e non appena imparai a leggere trascorsi ore in compagnia dei libri. Quand’ero piccola la televisione non esisteva, non era ancora stata inventata. C’era la radio, c’erano i racconti delle persone, e c’erano i libri. Leggevo e scrivevo molta poesia, e fu questo a farmi capire davvero come le parole, usate in modi diversi, potevano dipingere sia mondi reali che immaginari. Scoprii la bellezza, la magia del comunicare attraverso le parole. Comunichiamo anche con la musica e con l’arte, certo, ma con le parole possiamo formulare domande sul senso della vita e sul perché ci troviamo qui. Durante i miei anni nella foresta pluviale, ho studiato il comportamento dei nostri parenti più stretti, gli scimpanzé, scoprendo gradualmente quanto sono simili a noi, e in quanti modi. Condividiamo i gesti e le posture della comunicazione: baciare, abbracciare, rassicurarsi a vicenda con un tocco delicato della mano, darsi delle arie e così via. Sono molte anche le differenze, naturalmente, ma quella che trovo più significativa è il nostro esplosivo sviluppo intellettuale. E ritengo che questo, almeno in parte, sia stato innescato dal fatto che, a un certo punto della nostra evoluzione, abbiamo sviluppato un linguaggio che ci permetteva di comunicare in un modo nuovo: usando le parole. Ciò significava poter parlare di cose e persone non presenti, condividere idee, discutere e cercare di risolvere i problemi. Senza le parole tutto ciò sarebbe impossibile. Come i nostri antenati preverbali, saremmo in grado di comunicare soltanto con i nostri gesti e le nostre posture istintive. Se dovessi scegliere una parola, sceglierei speranza. Perché il mio lavoro, oggi che il mondo attraversa un’epoca buia – in senso politico, sociale e ambientale –, è dare speranza alle persone. Perché senza la speranza di poter rimediare almeno in parte ai danni che abbiamo inflitto alla natura, migliorare il modo in cui trattiamo gli altri e gli animali, sprofondiamo nell’apatia. Se non esiste speranza, perché sforzarsi di cambiare le cose? Dovremmo semplicemente “mangiare, bere e stare allegri”, godere della vita il più possibile prima che finisca. Ecco, nel caso ci fosse un’apocalisse verbale, in un’immaginaria condizione di assenza di parole, per me ne rimarrebbe una sola: speranza. E la mia personale speranza, proprio come accadde nel nostro passato lontanissimo, preistorico, è che potremmo nuovamente sviluppare un linguaggio basato sulle parole. Creare immagini di parole, condividere i nostri pensieri più intimi. Speranza: la luce che brilla in un mondo buio.
Jane Goodall, etologa e primatologa inglese, nasce a Londra nel 1934. È Dama dell’Ordine dell’Impero Britannico, ambasciatrice di Pace delle Nazioni Unite e fondatrice del Jane Goodall Institute, impegnato nella conservazione degli scimpanzé. La sezione italiana del JGI, fondata da Daniela De Donno, si occupa della tutela dei primati e dell’educazione alla sostenibilità ambientale.
“They” di Andrea Bennett
Quando alle elementari imparai a coniugare i verbi, la tabella era suddivisa in due colonne ordinate. A sinistra: io, tu, lui/lei. A destra: noi, voi, essi. Essi (they, in inglese), ci insegnavano che andava usato quando il soggetto era plurale. Considerati singolarmente, gli individui erano tutti lui o lei. Se scrivendo parlavi di una sola persona, la soluzione femminista, quella a cui si ricorreva per non usare il maschile generico, era scrivere lui/lei. Stiamo parlando degli anni Novanta, un’epoca in cui al talk show di Maury Povich facevano sfilare in passerella donne transessuali e cisessuali chiedendo al pubblico di indovinarne il sesso alla nascita; in cui spesso, nella regione impoverita del Canada dove vivevo allora, gli uomini per strada mi gridavano insulti omofobici. Lontano dall’aula, dall’inglese scritto, dalla tv spazzatura e dagli omofobi, io e tutti quelli che conoscevo usavamo già regolarmente il they come pronome singolare alternativo, per indicare una persona della quale non conoscevamo il sesso. Veniva naturale e aveva senso: in inglese, they era usato come pronome singolare neutro già nel XIV secolo, ovvero circa un secolo dopo il suo prestito come plurale dallo scandinavo. Viene usato con regolarità perfino da chi dubita dell’esistenza delle persone non binarie, come Jordan Peterson e Louis C.K. (Peterson, famoso soprattutto per il suo eclatante fraintendimento di una proposta di legge canadese per rendere reato le discriminazioni basate sull’identità o sull’espressione di genere, usa inconsciamente il they singolare, nei suoi discorsi, anche per spiegare che si rifiuta di usarlo). Il bello del they è che è flessibile, neutro, e si usa in continuazione. Più bello ancora è che questo pronome riconosce l’esistenza delle persone non binarie. Va da sé che il problema di quelli come Peterson con il they singolare non ha niente a che vedere con la grammatica, ma con il fatto che sancisce l’esistenza delle persone come me, mentre lui preferirebbe che la lingua inglese tutta, oltre all’intera popolazione mondiale, si attenesse alle categorie che lo rassicurano. Per fortuna, ciò non succede. Venticinque anni fa non disponevo di un modo per definire il mio genere sessuale, né per chiedere alle persone intorno a me di riconoscerne l’esistenza. La mia speranza è che, fra altri venticinque anni, il disagio che alcuni oggi provano di fronte al they singolare sia svanito, portando con sé i tanti altri preconcetti che adottiamo sulle persone e il loro genere sessuale quando ci muoviamo nel mondo. Quel they apre un piccolo spazio in cui è possibile sospendere la classificazione inconscia che pratichiamo vedendo una persona, per decidere se sia uomo o donna, maschio o femmina. They ci offre l’opportunità – un’opportunità che spero coglieremo sempre più spesso – di non decidere affatto.
Andrea Bennett è un’autrice e giornalista she/they canadese pluripremiata. Ha pubblicato un libro di poesie e due guide di viaggio. I suoi articoli sono usciti su “The Atlantic”, “The Globe and Mail” e “The Walrus”. Il suo libro di saggi “Like a Boy but not a Boy” (Arsenal Pulp), attesissimo, è in uscita nel 2020.
"Uguaglianza” di Nadia Murad
Sono molte le parole importanti per me e per il lavoro che faccio a sostegno della comunità yazida e delle vittime di violenza sessuale. Giustizia, riconciliazione, empowerment, pace: sono tutte parole che uso, in cui credo e per le quali combatto quotidianamente. Ma uguaglianza è quella per me fondamentale, perché se ci fosse una vera uguaglianza tra le persone, indipendentemente dal sesso, dal genere, dalla fede religiosa o dalle convinzioni politiche, molte delle guerre e dei conflitti del XXI secolo terminerebbero. In questo mondo ideale gli yazidi, che sono stati storicamente presi di mira a causa della loro fede, non faticherebbero più a riprendersi dal genocidio, dalla violenza e dall’oppressione. Liberi dalla discriminazione e dall’odio dovuti al loro credo religioso, gli yazidi sarebbero una comunità prospera e pacifica. L’uguaglianza consentirebbe loro di ricostruire case nella propria patria ancestrale, Sinjar, di coltivare i propri raccolti, praticare liberamente la propria religione e crescere i figli senza temere violenze. Anche l’uguaglianza tra uomo e donna è di vitale importanza per il lavoro che faccio a difesa e sostegno delle vittime di violenza sessuale. Nel corso della storia è sempre esistita una disparità di potere e di opportunità tra uomini e donne, una disparità che è stata solo esacerbata dalla violenza sessuale perpetrata contro le donne. Questo tipo di crimine non esiste solo nelle zone di guerra: la violenza sessuale si verifica a ritmi allarmanti nei luoghi di lavoro, nelle scuole, nelle università e nelle case – tutti luoghi in cui le donne dovrebbero sentirsi al sicuro. Quindi, solo quando uomini e donne saranno veramente uguali agli occhi della società, il mondo sarà un posto più sicuro per noi tutti. Queste due facce dell’uguaglianza diventano una per me quando penso alla triste condizione delle donne yazide vittime di violenza, e dei loro bambini nati in seguito a questi crimini. È vitale per tutti noi riconoscere i bisogni, i diritti e l’umanità di queste vittime e fornire loro un ambiente in cui crescere serenamente. Perseguire l’uguaglianza può aprire la strada all’empowerment, alla giustizia e alla riconciliazione per le generazioni future. È ora che i leader mondiali e le persone comuni si rendano conto che l’uguaglianza è un diritto umano fondamentale che tutti dobbiamo sforzarci di raggiungere. I pregiudizi, i conflitti e le cicatrici del passato saranno certamente di ostacolo in questo viaggio. Tuttavia, con un impegno profondo e condiviso nel riconoscere l’umanità e la dignità di ogni singolo essere umano, sarà possibile creare un mondo in cui l’uguaglianza sia la norma, e non soltanto un ideale. Come diciamo a Nadia’s Initiative, in quanto comunità globale dovremmo sforzarci di trasformare ogni “mai più” in una realtà, anziché in una vuota promessa. L’unico modo per porre veramente fine a genocidi, violenza sessuale, persecuzioni religiose e tutti i crimini alimentati dall’odio è raggiungere un’uguaglianza globale, costruita su fondamenta di comprensione, compassione e rispetto reciproco.
Nadia Murad ha ricevuto il Premio Nobel per la Pace nel 2018. Nata nel 1993 nell’Iraq yazida, viene rapita da Isis nel 2014. Una volta fuggita comincia a battersi per i diritti umani. Dal 2016 è la prima ambasciatrice Onu per la dignità dei sopravvissuti alla tratta di esseri umani.
"Umiltà” di Richard Powers
Vorrei salvare la parola umiltà. Quelli che viviamo sono tempi ossessivi, tempi stridenti, in cui le certezze, lo zelo, la presunzione di essere nel giusto sembrano trionfare in ogni ambito. Le nostre opinioni si fanno più chiassose, più rigide, meno flessibili proprio nel momento in cui gli eventi crescono in complessità e sfaccettature, richiedendo tutt’altro atteggiamento. Trattiamo il mondo non umano come se non fosse davvero “vivo”: vivo, cioè, allo stesso modo in cui lo siamo noi. Ancora qualche anno di tale atteggiamento e, con il potere che abbiamo imparato a esercitare, tutto questo si trasformerà in una triste profezia che si avvera da sé. A nostre spese. Con il collasso e i profondi cambiamenti che stanno subendo i diversi sistemi di atmosfera, acque, suolo e clima, diventa sempre più chiaro a tutti che l’uomo non è mai davvero arrivato a dominare il resto del mondo vivente, come si era illuso che fosse. Di fatto, rischiamo di essere sconfitti proprio da quel mondo che teoricamente “dominavamo”. Di conseguenza, un tipo particolare di storia sta tornando a essere attuale, un tipo che faceva parte di narrazioni più antiche, antecedenti al romanzo moderno, un tipo che credevamo, forse, dimenticato. Il mio libro, Il sussurro del mondo, si occupa proprio dell’idea che “umanità” e “natura” non siano due cose separate. Esse sono, e sono sempre state, completamente, reciprocamente e inestricabilmente connesse. Tutti gli alberi sono sociali: formano comunità, si inviano segnali chimici l’un l’altro riguardo a pericoli o attacchi imminenti, si preparano preventivamente a difendersi. Sono connessi nel sottosuolo, condividono cibo e sostanze nutritive, possono mantenersi reciprocamente in vita in tempi difficili. Sono straordinarie le cose che stiamo imparando sugli alberi. La lezione per l’umanità è che abbiamo in qualche modo mancato di capire cosa succede in queste grandi società che sono i boschi. Pensavamo che fossero governate soprattutto dalla competizione, ma ora stiamo imparando che per ogni atto di competizione ce ne sono molti, molti altri di cooperazione. Per quello che mi riguarda, vorrei che noi scrittori ci mettessimo al lavoro perché le nostre opere cominciassero a raccontare non solo le sfide e i drammi di un mondo afflitto dal cambiamento climatico, ma anche la storia di quello che ci servirebbe per aprire gli occhi e cambiare le nostre coscienze, scuoterci, liberarci dell’idea dell’unicità e centralità assoluta dell’essere umano, un’idea che da tempo ha totalmente colonizzato il nostro immaginario. Ecco allora che un po’ di vigile umiltà potrebbe fare miracoli per noi, per tutti noi. Come dire: più ascolto, meno grida e strilli. Amo tutto ciò che è contenuto in questa parola. A cominciare dalla sua etimologia: viene dal termine latino humilis, che letteralmente significa modesto e chino, “a terra”, traendo a sua volta la propria radice da humus, terra. Insomma, l’umiltà ci rimette in connessione diretta, indispensabile, con il suolo, il terreno, da cui (anche se l’abbiamo dimenticato) le nostre vite dipendono.
Richard Powers, nato a Evanston (Illinois) nel 1957, è autore di dodici romanzi e ha ricevuto numerosi premi tra cui il MacArthur Fellowship, il National Book Award e il Pulitzer per il suo ultimo libro, “Il sussurro del mondo” (La nave di Teseo).
Vogue Italia, settembre 2019, No. 829, pag.137
(English text)
WELCOME BY TRUDIE STYLER
Welcome is one of the most important and versatile words we can use, a word which connects us to one another in a spirit of openness and generosity.
In the most throwaway sense, ‘You're welcome’ is almost an automatic response to any expression of thanks or appreciation. But it is also a great leveller between receiver and giver. We receive a gift, a favour, a courtesy, and if we have good manners we acknowledge it with a thank you, and in return the polite response is you are welcome, and so we know the gift or favour or courtesy has been freely and happily given, there is no resentment, no lingering debt. I notice these niceties very often in Tuscany where Sting and I have a home. Every thank you earns a you are welcome, almost without exception. Grazie always bring Prego, in the delicate dance of Florentine etiquette.
As an enthusiastic hostess, our family and friends and new acquaintances are always welcome to sit and break bread with us, and share our wine. Every summer we spend several weeks in Tuscany and we entertain a steady stream of visitors who come and go during our time there. From my first footsteps into independent life as a young woman, entertaining friends was an important element – I spent a lot of time with actors and artists and musicians and generally we are an open and easygoing group of people – any excuse for a celebration! So welcoming people into our home, at our table and in our hearts plays a big part in our lives. Connecting with friends and family is key to human happiness, so making people feel welcome is a skill that goes a long way towards creating a fulfilled and happy circle of life.
And I think it’s important to extend this welcome even further, to go far beyond the circumference of just our nearest and dearest, and widen the circle to a global level. In our world today there are great movements of populations – economic migrants, political refugees, asylum seekers. There are many phrases to describe people who have been forced by circumstances or persecution to leave their homes and search for new places of safety. More and more we see that they are not welcomed. They are locked up, separated from their parents, their children, they are dehumanised. So often they are not treated with the basic respect they deserve, as our fellow men and women. Where is their welcome?
I believe that we have a duty to welcome suffering people who have been denied their basic needs of home and hearth and security. With our doors open, we can give safe harbour to those fleeing persecution and death. With our minds open, we can give opportunity to future leaders and brave citizens of the world. So I cherish the word welcome. Because we all need the chance to feel like we belong.
CURATOR BY ARIC CHEN
Considering that a large part of what a curator does is preserve things, perhaps it’s a bit obvious of me to choose “curate” as the word I would want to save. As a curator myself, this is not in anticipation of being replaced one day by algorithms, crowd-sourcing or artificial intelligence (though I’m aware of the possibility). Nor is it because the word itself needs saving; when every social media feed, beer menu and shop encounter is now “curated,” the term is hardly at risk of disappearing.
No, I’ve decided to save “curate” not because it’s endangered, but precisely because it’s so adaptable, open-ended—and useful. In my mind, curating is fundamentally about making the effort to gain a depth of knowledge—about a thing, a person or whatnot—alongside a breadth of understanding that allows you to draw revealing or even unexpected connections. Moreover, it’s about being conscientious about the decisions one makes, and expanding how we, and others, see and think. Curating, at its best, opens eyes and minds. On occasion, I’m asked if the fact that everything now is curated, and everyone calls themselves a curator, somehow offends my sense of professionalism. Of course it doesn’t. When used thoughtfully—which is to say, not pretentiously or cynically—curating is a practice that’s meant to be shared. Open the floodgates.
The etymology of the word itself already hints at its promiscuity. Derived from the Latin curare—“to care for”—a curatore in ancient Rome was a high-ranking official who acted as custodian of the empire’s public works. By Europe’s Middle Ages, the curatus, or curate, was a parish priest, a caretaker of the spiritual realm. From maintaining sewers to saving souls, it seems there are no limits to what a curator can do.
In the stricter sense, many museum curators in the British system are still called Keepers—much like the French conservateur, or conservatrice—which reminds us that curating once chiefly entailed the stewardship of collections. In China, however, I’m referred to as a che zhan ren—an exhibition planner. As someone who has worked on museum collections and exhibitions, design weeks, design fairs, and biennials—each with its own requirements, and each calling for its own approach—these are two sides of the same coin.
Of course, curating also demands rigor, and at a time when we perhaps play a bit too fast and loose with a few too many things—as with politicians and facts—some parameters must be drawn. Curating is also about maintaining standards, after all. Anyone can, and should, be a curator, and almost anything can be curated. However, there are different kinds of curating, and one needs to be clear and honest about the motivations behind them, be they cultural, academic, or commercial. In the future, perhaps, we’ll increasingly need to curate what we mean by “curate.”
FAMILY BY STEFANIA AUCI
A while ago, my son told me that ours is one of the few traditional families in his class. It made me think. How complicated is it today, to be family? How willing are we to put ourselves out there, to give up a part of our emotional and personal sovereignty to create something new?
I was born and grew up in a southern famigghia, in other words, where no one is safe from the intrusiveness of those around them, where love is conveyed through food, advice about how to behave, the constant and suffocating “be careful”.
To be honest, my family, at the beginning, was more of a gynaeceum, since the only males were my father and the cat. A pretty hectic place physically and emotionally, with a typical omnipresent and anxious mother and two older sisters who opened the way for me. The men arrived with my husband's family: a substantial platoon of uncles and cousins, about sixty.
But the essence hasn’t changed: for me family has always had the colors and sounds of a world in which you guard the past and await the future, in which daily life is never completely individual and where marriages, births, communions and funerals are a way to remember that you are never alone, even if you wish you were. We forged ahead and continue to do so through shared stories, memories, photographs, the scents of closets and the smell of food. And this universe of love extends to friends and, given that for a person from the south there is nothing more important than the bond of blood, if you have a person you love you don’t say that he is “a dear friend”, rather that he is “my brother”. It doesn’t matter that he’s not tied to you by jus sanguinis: you ascribe that connection to him. I also have a special place in my family for my cats, just to up the confusion and the love.
I realize that my vision of family may seem old-fashioned. But for me that’s not the case. Remembering where we come from, our roots, those who – for better or for worse – made us what we are makes us more aware. And if we can make peace with certain aspects of our past, it also allows us to be free.
Because family is a place we’ve built, where, as children, we were taught that it’s important to love one another, that there isn’t just mine and yours, but ours too. That it’s nice to share, even if it’s just chitchat, gossip, confidences, and never mind if within an hour they’re no longer secret.
Because it’s there that we learned to laugh and to do it together with others. After a fight – even an angry one – we always end up coming back: to be sure, certain words dig grooves into you that will never go away, yet you go on, because the ties that bind always carry more weight than those that divide. And, even when the pain can’t be fixed, we all pull together to feel less keenly the emptiness left by someone. Somebody puts a plate in front of you, forcing you to eat, someone else welcomes you with a hug. There’s no need to ask for anything more.
I know full well that “being family” has always been complicated. Perhaps even more so today. In my experience as a teacher, I come into contact with dysfunctional, unloving, “difficult” families. But it’s one thing to tackle these realities and another to try to pulverize the institution of the family, as if it no longer had a reason to exist. When in fact it does, and how, and I am vehemently convinced that today there is a great need to have a safe place we can return to.
Don't believe it? If you come visit me, we’ll convince you otherwise. Me, my husband, my nieces, my two sisters, my cousins, all my uncles and aunts. In front of a plate of cuscùsu alla trapanisa, of course.
INGENUITI BY FRANCESCO BONAMI
There is a word that before being rescued must be invented and inserted into the Italian dictionary – or the meaning of what’s already there must be changed. The word is English: ingenuity. If you ask what it means on the fly, most people will answer: “naiveté”. But no. Ingenuity means having the ability to be intelligent, inventive, original. In other words, it means ingeniousness. And ingeniousness can’t develop unless it’s mixed with a certain naiveté, a quality that makes us do things that might seem silly or banal – but that are actually exceptional.
In Italy ingenuous naiveté is almost always viewed with suspicion and is often ridiculed. Think of a Steve Jobs who, instead of growing up in America, came – I don’t know – from Florence. So, one day our young Florentine goes to a group of friends, he tells them how he invented a computer and wants to call it Apple. The friends don't even let him finish before they start making fun of him. Then they start giving him advice: call it Leonardo or Vico (Giambattista, the philosopher), maybe Pico (della Mirandola). Moral of the story: he chooses to call it Pico and the Florentine Steve Jobs and his computer were never heard from again. And yet, Italians have had ingenuiti, with an “i” (which indicates a plural in Italian), in spades. Think of when a man decided to create a sort of motorbike using the wheels of a small plane, and then he called it Vespa. It was the post-war period and maybe being ingenious and naive helped people forget the ugliness that had happened.
Then, I don't know when, ingenuiti was replaced by cunning, then by arrogance, and finally by arrivism. We are no longer so naive as to dream or imagine, but we want to be cleverer than others. The ideas that come to us are meant to make idiots look foolish. You could jot down a list of people who, thanks to their ingenuiti, changed Italy – one of whom is Renzo Arbore: thanks to his ingenious naiveté he created television programs that no one would even dream of today. Those blessed with ingenuiti are people who don’t think they know more than others but, very naively, want their ideas to reach others. They’re people who want to improve the lives of others because, if others are better off, they are certainly better off too.
Of course, one can’t just be naive, one must also have good ideas – but those come if one has an open approach, if one isn’t afraid their friends will laugh them off. I think that rediscovering our ingenuiti is also the secret to finding our way back in politics, in art, in life. Populism is the opposite of ingenuiti, because it exploits the majority’s idealess naiveté without offering ingeniousness. Let's take away the “y” and add the “i,” but save this magnificent multipurpose word for the future.
FREEDOM BY ANGELINA JOLIE
Freedom. My word is definitely freedom. Because without it we are nothing. We don't exist. We don't think. And that is especially true for us women.
People don’t reflect on the fact, for example, that we don’t have the right – the freedom, in fact – to be “soft”. We are used to fighting. For our rights. For our safety. We always have to show that we are strong, that we know how to do everything: work, raise children ... But we are born delicate and kind creatures. And this fragility is a space that is not granted us.
A free woman does not necessarily have to be aggressive. Doesn't have to show she’s wild or sexy. Freedom is also joy, happiness, delicateness, femininity. Maybe if I asked my children – what is the fundamental word – they would say silly: that’s how they see me.
But getting back to fundamental values, I would like to convey to them the importance of kindness. It’s hard to talk about kindness when they fight. But I try to remain firm and make them reason. My children are strong people, with open minds. But it’s essential to be kind. And humble. To remember that we are just human beings, that we won’t be here forever and that we are just a little frame in a much bigger picture.
SNOW BY BILL MCKIBBEN
“Snow” is among my favorite words—beginning sometime in September I start listening to the weather forecast in the hope that some early season storm might bring us a quick coating of white. I love snow because—well, because I’m a fairly clumsy and slow person. But once the ground is covered with snow, friction disappears. For a season I can slide with grace and ease, up and down hill (I’m a Nordic skier), through the woods. It feels to me like magic.
And that magic seems to be wearing off, like some spell cast by an enchantress who is losing her powers. Across the planet the average length of winter has begun to shrink. Where I live in the mountains of New England, snowstorms too often turn to rainstorms. In the Alps, the glaciers are quickly disappearing, to the point where some resorts cover them with great tarps to try and slow the melt. In the Himalayas, a third or more of the snow and ice will be gone by late in the century—already climbers report that it’s harder and more dangerous to head into the high mountains because the melting snow drops boulders on their heads. Even in the great planetary storehouses of snow and ice the thaw is on: I’ve stood on the icesheets of the Antarctic Peninsula and watched as giant bergs crashed into the ocean, or wandered on the ice mountains of Greenland only to find newly thawed drainholes sucking water off the surface.
There’s one way and one way only to protect this magic, and that’s to slow the onrushing rise in the planet’s temperature. Which means ending the burning of coal and gas and oil, and replacing them with the power of the wind and the sun. The engineers have done their job elegantly, dropping the price of a solar panel ninety percent in the last decade. But the politicians have failed at theirs, and so the necessary transition is going much too slowly. At the current pace we will never meet the targets set by the United Nations. We need to push much harder, getting national governments to move with real ambition, and pushing the planet’s financial system to stop the funding of fossil fuels. That’s why, around the world on September 20, people will join in an all-ages climate strike, designed to back up the kids who began this work a year ago.
There are plenty of crucial reasons to do this: people are already dying from drought, from flood, from fire, from the rapid spread of disease as mosquitoes spread to new places. The UN estimates we could see up to a billion climate refugees before the century is out. These are all more crucial reasons to address climate change—the injustice of global warming, which means those who do the least to cause it suffer the most, should drive us to act.
But there’s also a love of the beautiful world we were born into. And since one of its most remarkable features is snow, that’s worth fighting for too!
PATIENCE BY KRISTINA O’NEIL
“Take it slow, and it'll work itself out fine / All we need is just a little patience”
Who would have thought that Axl Rose and Guns N’ Roses would give life advice worthy of Oprah Winfrey?
I agree—good things come to those who wait, even if it’s a long time. In today’s insta-everything world, I think it’s more important than ever to take my time. We all want to click, to buy, to get what we want immediately. Trust me, I love Net-a-Porter same-day delivery—and Uber, Seamless and Amazon Prime Now—but in life and in work, sometimes it’s better to breathe deep, take a beat and let your imagination run wild.
I can think of many times at WSJ. when people I only dreamt of working with—like Oprah—said no. I sent a request to her the day I started as editor in chief, and kept on sending them. One day five years later, she appeared on our cover with a revealing interview and a triumphant, moving photo portfolio by Mario Sorrenti. No, I didn’t get a car from her, just an on-set hug (I cried). But I’ve learned that when you make a strong case for what you believe in, and it’s clear that you want to embark on a significant collaboration, lots of wonderful, even unpredictable, things start happening.
Look at Giorgio Armani, Carolina Herrera and Tory Burch: They were all over 40 when they launched their brands, which have changed the world of fashion. Karl Lagerfeld was nearly 50 when he began designing at Chanel. At 81, David Hockney sold a painting at auction that shattered the record for the work of a living artist. Meanwhile, 17-year-old Billie Eilish might seem like an overnight success with her No. 1 album, but she started recording songs with her older brother in their childhood home when she was 13, and her love affair with music began long before that.
That’s why patience is a value I also try to instill in my children: Stella, 12, and Dex, 3. It’s important to wait, not rush things. Don’t make rash decisions, and listen to all sides. Weigh your options. Your instincts are able to speak much, much louder when you are patient.
And give me a tequila or two while I’m waiting, and you might find me in a karaoke bar, belting out "Patience."
HOPE BY JANE GOODALL
My whole life I have loved words. I was writing stories when I was very young, and as soon as I could read, I spent hours with books. There was no TV when I was growing up – it had not been invented. There was the radio, and peoples’ stories – and books. I read and wrote a lot of poetry which helped me to truly appreciate how words, used in different ways, could paint pictures of both real and imagined worlds. I learned about the beauty, the magic of communicating through words. We communicate also through music and art – but with words we can ask question about the meaning of life and why we are here.
During my years in the rainforest learning about the behaviour of our closest relatives, the chimpanzees, I gradually learned how like us they were, in so many ways. We share the gestures and postures of communication – kissing, embracing, gently patting another in reassurance, swaggering and so on. Of course, there are also many differences, but the one that I feel is the most significant is the explosive development of our intellect. And this, I believe, was at least partly triggered by the fact that, at some point in our evolution, we developed a language whereby we could communicate in a new way; using words. This meant we could tell people about things and events not present, share ideas, discuss and try to solve problems. In this imagined verbal apocalypse all that would be impossible. As it was for our pre-verbal ancestors we would be able to communicate only with our instinctive gestures and postures.
So – which word would I save, out of all the thousands?
Hope.
Because my job today as the world goes through a dark time – politically, socially and environmentally – is to give people hope. For without the hope that we can heal at least some of the harm we have inflicted on nature, improve the way we treat each other and animals, we sink into apathy. If there is no hope, why bother to try to make a difference? We should simply “eat, drink and be merry” – enjoy life as much as we can before the end.
And so in this imagined word-less state there will be one word, hope. And my hope would be that, just as happened in our remote, prehistoric past, once again we could develop a language based on words. Create word pictures, share our inmost thoughts. Hope: a shining light in a dark world.
THEY BY ANDREA BENNETT
When I learned to conjugate verbs in elementary school, the conjugation table was set up in two neat columns. On the left-hand side: I, you, he/she. On the right: we, you, they. They, we were taught, was used when we were speaking about a group of people. Anyone single received he or she. If you were writing something that described a hypothetical single person, the feminist way to handle this, in order to not rely on using a masculine neutral, was to write “s/he” or “he/she.” This was in the 1990s, when the Maury Povich show used to parade trans and cis woman down a runway and ask the audience to guess what sex they’d been assigned at birth; the era in which men frequently hollered homophobic slurs at me from their cars while I was walking around the rust belt section of Canada I then called home.
Outside of class and written English and bad television and homophobes, I and everyone I knew was already using the singular “they” regularly as a pronoun whenever we talked about a person whose gender we did not know. It came naturally, which makes sense: “they” has been employed as a singular gender-neutral pronoun in English since the 14th century, about a hundred years after it was first borrowed from Scandinavian in the plural. It is even regularly employed by people who are skeptical about the existence of nonbinary people, like Jordan Peterson and Louis C.K. (Peterson, whose claim to fame is a blatant misinterpretation of proposed Canadian law making it illegal to discriminate against people based on gender identity or expression, employs the singular they unconsciously as an ordinary part of conversation even while explaining that he refuses to use it.)
The nice thing about “they” is that it’s flexible, gender-neutral, and we use it all the time. The even nicer thing is that the pronoun affirms the gender of nonbinary people. Of course the reason that people like Peterson have a problem with the singular they is not a grammatical reason, but rather that it feels affirming for people like me, and he’d prefer that the entirety of the English language, alongside all the world’s people, conform to the categorizations with which he’s comfortable. Thankfully, neither will.
Twenty-five years ago, I had no way to describe my gender, and no way to ask the people around me to affirm it. Twenty-five years from now, my hope is that the discomfort some people now feel about using the singular “they” will have dissipated, taking along with it the many other assumptions we make about people and their genders as we move through the world. “They” opens up a small space we can use to pause the subconscious sorting we do when we see someone, deciding if they are a man or a woman, a boy or a girl. “They” gives us the opportunity—an opportunity I hope we’ll take more often—to not decide at all.
EQUALITY BY NADIA MURAD
There are many words that are important to me and the work I do advocating for the Yazidi community and victims of sexual violence. "Justice, reconciliation, empowerment, peace" - these are all words I utilize, believe in, and fight for on a daily basis. However, “equality" is especially salient for me because I believe that if there is true equality between all people, no matter their sex, gender, religious faith, or political beliefs, many of the wars and conflicts of the twenty-first century would come to an end. In this ideal world, the Yazidis - who have historically been targeted because of their faith - would no longer struggle to recover from genocide, violence, and oppression. Free from discrimination and hate due to their different religious beliefs, the Yazidis would be a thriving, peaceful community. This equality would allow them to rebuild their homes in their ancestral homeland of Sinjar, farm their crops, practice their religion freely, and raise their children without fear of violence. Furthermore, equality between men and women is also vitally important to the work I do to defend and advocate for victims of sexual violence. Throughout history, a disparity in power and opportunity has existed between men and women, and this disparity has only been exacerbated by sexual violence perpetrated against women. This kind of crime does not only exist in conflict areas: sexual violence occurs at alarming rates in workplaces, schools, universities, and homes – all spaces where women should feel secure. Thus, it is only when men and women are truly equal in the eyes of society that the world will be a safer place for us all. These two branches of equality come together for me when I consider the plight of Yazidi women who have been assaulted and the children that they bear as a result of these crimes. It is vital for us all to recognize the needs, rights, and humanity of these victims and provide them with an environment to grow and thrive. Achieving equality can pave the way for empowerment, justice, and reconciliation for future generations. It is time for world leaders and civilians alike to realize that equality among all people is a basic human right that we all must strive to attain. The prejudices, conflicts, and scars of the past will certainly prove to be confronting obstacles in this journey. However, with a deep, shared commitment to recognizing the humanity and worthiness of each individual human being, it will be possible to create a world wherein equality is the norm, not just an ideal. As we say at Nadia’s Initiative, we as a global community should strive to make “never again” a reality rather than an empty promise. The only way to truly put an end to genocide, sexual violence, religious persecution, and all crimes fueled by hate is to achieve global equality that is built on a foundation of understanding, compassion, and mutual respect.
HUMILITY BY RICHARD POWERS
I’d like to save the word humility. We live in obsessive, strident times, in which certainty, zeal, the presumption of being in the right seem to reign over every sphere. Our opinions become noisier, more rigid, less flexible right when events are getting more complex and multifaceted, demanding a completely different attitude.
We treat the non-human world as if it weren’t really “alive”: alive, that is, in the same way that we are. A few more years of this attitude and, with the power we’ve learned to wield, all this will turn into a sad self-fulfilling prophecy. At our expense. With the collapse and the profound changes that the various atmospheric, water, soil and climate systems are undergoing, it is becoming increasingly clear to everyone that man never really came to dominate the rest of the living world, as he had deluded himself was the case. In fact, we risk being defeated by that very world that we theoretically “dominated”. As a result, a particular type of story is becoming relevant again, a type that was part of older narratives, prior to the modern novel, a type that we thought, perhaps, forgotten.
My book, The Overstory, deals precisely with the idea that “humanity” and “nature” are not two separate things. They are, and have always been, completely, mutually and inextricably linked. All trees are social: they form communities, send chemical signals to each other about dangers or imminent attacks, they prepare themselves in advance to defend themselves. They are connected underground, share food and nutrients, they can keep each other alive in hard times. The things we are learning about trees are extraordinary. The lesson for humanity is that we have somehow failed to understand what happens in these huge societies that are the woods. We thought they were mostly governed by competition, but now we are learning that for every act of competition there are many, many others of cooperation.
As far as I'm concerned, I would like us writers to get to work so that our writing begins to speak not just of the challenges and dramas of a world plagued by climate change, but also the story of what we need to open our eyes and change our consciences, shake ourselves up, free ourselves from the idea of the absolute uniqueness and centrality of the human being, an idea that long ago completely colonized our imagination.
So a little vigilant humility could do miracles for us, for all of us. In other words: more listening, less shouting and screaming. I love everything that is contained in this word. Beginning with its etymology: it comes from the Latin term humilis, which literally means modest and bowed, “to the ground”, taking its root, in turn, from humus, earth. In short, humility puts us directly, indispensably back in contact with the soil, the ground, on which (even though we’ve forgotten it) our lives depend.
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